«Words are deeds», le parole sono atti, recita una celebre poesia visiva dell'artista americano Joseph Kosuth, uno dei padri dell'arte concettuale. Adrian Paci, artista albanese emigrato in Italia un quarto di secolo fa e milanese di adozione, ha da sempre fatto proprio questo aforisma con una pratica artistica fortemente intrisa di senso umano, sociale e politico. Le parole sono atti; e anche le opere d'arte, quando colpiscono al cuore per il loro significato profondo che punta al risveglio della coscienza prima ancora che del senso estetico.
Merita un'attenzione particolare, dunque, la sua ultima installazione progettata per il Mudec come prologo alla mostra «Travelogue» che si inaugurerà nella primavera del 2025 dedicata al tema del viaggio come percorso iniziatico ed esperienza introspettiva prima ancora che territoriale. Il viaggio, da sempre, rappresenta la stella polare dell'opera di Paci, e così pure la concezione di public art, ovvero concezione dell'opera intesa come dialogo con il mondo e con gli spazi di attraversamento. «Il vostro cielo fu mare, il vostro mare fu cielo» - questo il titolo dell'installazione monumentale e al contempo in simbiosi con le altezze architettoniche del Mudec - rappresenta l'ultimo di una serie di messaggi a cui Paci ha abituato il pubblico fin da quando sbarcò in Italia negli anni '90.
«Credo che l'arte sia una questione pubblica, non privata, nasce da esigenze che vanno oltre il singolo. Ma non basta mettersi in uno spazio pubblico, deve succedere un'attivazione altrimenti diventa un aborto, un fallimento», disse durante uno dei suoi numerosi interventi sul suo ruolo di artista globale tra scultura, pittura, video, fotografia e installazione. L'attivazione implica sempre una relazione tra le sue opere e il pubblico, con al centro i temi del viaggio, della migrazione e del ritorno a casa come meta simbolica.
Una su tutte è l'opera-simbolo di «Vite in transito», la mostra personale che gli dedicò il Pac nel 2014 e che mostra l'immagine di un gruppo di africani ammassato sulla scala di un aereo in un aeroporto assolato e con un dettaglio inquietante: in cima a quella scala non c'è alcun aereo, si apre il vuoto. Un'opera significativa e di denuncia ma, come tutti i suoi progetti, più poetica che politica: «Non voglio parlare solo dei rifugiati dice Paci perché ognuno di noi vive o ha vissuto l'esperienza di andare da qualche parte senza sapere dove, senza conoscere la meta».
Altrettanto toccante è l'installazione site specific che trasfigura da oggi la grande vetrata dell'agorà del Mudec evocando un grande mare, un mare nostrum che irradia di luce azzurrina l'ambiente ideato da Chipperfield attraverso una texture di retini tipografici tratti dalle notizie tragiche dei tanti, troppi naufragi della speranza. «È un grande acquario carico di tragedie implicite che sottolinea i limiti e l'impotenza dei media rispetto al peso di tali esperienze», sottolinea la direttrice del Mudec Marina Pugliese.
Ancora una volta Paci, artista «concettuale» ma che riesce sempre a toccare corde emotive nelle sue sintesi rappresentative, ha il pregio di trasformare il dramma in poesia, la cronaca in elegia; proprio come fece con Rudere, la scultura realizzata nel 2021 per Citylife, una struttura-casa aperta sul retro e senza tetto, sorta di tempio contemporaneo che indaga sul concetto di spazio fisico e mentale, luogo di rifugio e possibilità.
«Penso che l'arte nasca sempre da un incontro dice Adrian - un attraversamento che regala esperienze, fantasie, immagini, storie, suoni, forme (anche illusorie). Portare queste esperienze nel territorio della forma tattile dell'opera è stata una delle preoccupazioni principali nel mio lavoro come artista».
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