Da Mantova
Poi a un certo punto in Pianura Padana sono arrivati i caprioli. Gli esperti dicono siano stati spinti dagli anziani capobranco a popolare zone come Quistello, Felonica, Ostiglia, Suzzara. Vengono guadando il fiume Secchia e arrivano dall'Appennino Modenese e Bolognese perché in quei luoghi sono in esubero. L'invasione dei caprioli, iniziata nel 2010, decreta che non ci sono più confini, non esistono regole di ambientazione specifiche e per la prosecuzione della specie si tenta l'impossibile, cercando nuove opportunità in luoghi inospitali. In antropologia neoevoluzionistica si chiama speciazione ed è un processo che avviene in botanica e zoologia.
La Pianura Padana è un luogo dell'anima e un osservatorio privilegiato per esploratori del presente. Ormai non esiste più quella Pianura Padana cantata o scritta per crearne un'epica fasulla e l'invasione delle zone rururbanizzate da parte degli animali simboleggia la fine di un'epoca. Ci sono i caprioli, sono arrivati, e un tempo c'erano i cinghiali e i daini. Ritorneranno. Qui tra Mantova, Modena, Ferrara, Rovigo e Verona si trovavano case sperdute in mezzo alla campagna più profonda. Queste case abbandonate sono crollate e sono state invase da edera e altre piante rampicanti. Ora tocca alle aziende delle Zone Industriali, delle Zone Produttive, delle P.I.P. Decine di industrie chiuse, un tempo fiore all'occhiello della provincia Padana, sono state convertite in archeologia industriale in attesa di essere ingoiate dalla natura e invase dai caprioli e ripopolate dai cinghiali. È il processo inevitabile della speciazione.
La Yes di Mantova, in Strada Cipata, fino all'anno scorso era la raffineria della città e aveva al suo interno centinaia di operai e impiegati. Ora è lì, con le sue bandiere sfilacciate e sbiadite, a fare da deposito petrolifero fino a esaurimento scorte. Passando per la Cartiera Burgo balza all'occhio l'imponente struttura progettata dall'architetto Nervi e di notte sullo spiazzo popolato dai Tir ora i trans appiccano fuochi qua e là per farsi notare da potenziali clienti. In zona Anconetta-Porto Catena c'è l'Ex-Ceramica, a poche centinaia di metri dal centro storico. Da decenni vogliono riconvertirla. Forse faranno alloggi per anziani con vista lago. Sembra tutto un cantiere, sembra tutto ricoperto dai teli forati arancione immobili in questa umidità insopportabile d'agosto su cui i teli si aggrappano assieme alle reti metalliche zincate che diventano prensili.
Se si prende l'auto e si tiene per il Veneto a pochi chilometri si passa da una regione all'altra. A Sanguinetto si è già in provincia di Verona e sulla Statale ci sono capannoni e prefabbricati con l'insegna che indica «Mobili d'arte». Tra Sanguinetto e Cerea siamo nel polo industriale del mobile in stile. Prima c'è Nogara dove ho visto uno zuccherificio dismesso e l'industria della Coca Cola in piena attività. A Sanguinetto tutto chiuso. Resiste solo qualche vetrina di design, per il resto campeggia sulle porte d'ingresso la scritta «Vendesi» e il segnale «Vietato l'ingresso ai non addetti ai lavori». Ma chi ci lavora più lì? Leoni di gesso e colonne marmorizzate in finto stile veneziano rendono la dipartita più accettabile. Tra un mobilificio chiuso e un negozio d'arredo con le serrande abbassate gli hotel a Tre Stelle ospitavano forza lavoro esterna e commessi viaggiatori. Ora sono stati riconvertiti in residenze per richiedenti asilo. Profughi all'Hotel Paradise. Biciclette ammassate sullo slargo in cemento color ocra. Qualcuno sta riparando una gomma bucata, un altro al di là della vetrata sta tagliando stoffa con una forbice da sarto e sembra stia preparando una maglietta da bambino. Ho provato a chiedere se potevo fotografarli proprio lì, seduti sugli scalini del Paradise, ma uno di loro, con vistoso rosario di plastica bianca al collo, ha detto che dovevo chiedere a un operatore. Non si possono fotografare. Ordine della Prefettura. Sullo sfondo, in mezzo alla campagna più estesa e piatta, qua e là sparsi senza logica, capannoni prefabbricati in stile neoclassico industriale sono invasi dalla gramigna. Dicono che questi immobili in fibrocemento siano stati messi lì senza essere finiti perché c'era stato un prestito a fondo perduto per insediarli. Parallelepipedi rettangolari hanno guadagnato terreno tra la campagna incolta senza strade, senza sentieri, senza tubature. Intanto sulla ciclabile passano due ragazze di colore che corrono vestite da jogging.
In questa parte di Veneto le uniche attività che sembrano resistere sono i centri commerciali. Ce n'è uno a Legnago costruito sfruttando un antico opificio dove si producevano mattoni in terracotta. L'hanno chiamato «Galassia», ma qui di stelle nemmeno l'ombra. La ciminiera rossa svetta tra basse costruzioni e officine meccaniche. Sulla strada è tutto un fiorire di saloni d'auto usate, sale slot, sale bingo, dove chi tenta la fortuna s'illude di svoltare. Poi ci sono i luoghi per cibarsi a basso prezzo, scarsa qualità, e centri dello pneumatico e market per la vendita di surgelati e centri massaggi orientali e rimorchi vuoti fermi sulla strada, bar chiusi, kebab, negozi d'abbigliamento, mercatoni in cui si vende di tutto, stazioni di rifornimento di metano.
La discoteca di Legnago si chiamava Il Principe disco club. Orde di operai turnisti facevano la spola tra l'azienda in cui lavoravano e la disco. C'era chi non dormiva per tutto il fine settimana così da poter rispettare turno di notte e tempo libero. Ora Il Principe è chiuso, la struttura portante dell'ingresso sta per crollare, il cellofan bianco e rosso incornicia l'immobile, due grossi new jersey di plastica impediscono di passare e raggiungere la porta principale.
Poi si va verso la provincia di Rovigo e da Legnago a Castelmassa sembra esserci il vuoto. Tra fossi per l'irrigazione e pioppi ordinati in filari un cartello indica «Riparazione sedili camion auto e moto». Palloni aerostatici verdi atterrati da chissà dove sono in realtà accumulatori di metano prodotto dagli escrementi dei bovini nelle stalle e alcuni appezzamenti di terra sono stati invasi da centraline e pannelli solari recintati per impedire ai ladri di rubarli. In mezzo a questo vuoto totale campi immensi di piante di tabacco, stalle aperte da cui si intravedono mucche e tori, campi di sorgo. Si deve arrivare a ridosso del Po per vedere un'enorme fornace dismessa in cui bimattoni e traforati imballati sembrano già pronti per essere spediti.
C'è un ponte che separa il Veneto dalla Lombardia e in un minuto si passa da Castelnuovo a Sermide. Il Po segna i confini politici e geografici, ma è tutta un'illusione perché il vuoto rende tutto simile. Proprio a Castelmassa Giovannino Guareschi dall'argine, passando in bicicletta, ha guardato il paese con la sua piazza e il suo campanile e l'ha fotografato. Quella piazza e quel campanile sono diventati l'immagine di copertina del primo Don Camillo. A Sermide lo zuccherificio ha chiuso negli anni '80 dello scorso secolo e un fitto bosco fa intravedere appena gli immobili dove si produceva zucchero a partire dalle barbabietole. Gli zuccherifici chiusi si trovano a Sermide, Bondeno, già Emilia, provincia di Ferrara e Finale Emilia in provincia di Modena. Erbe spontanee crescono nel vasto cortile dove lo zuccherificio di Bondeno è stato raso al suolo. Sono rimasti solo la portineria e resti di pavimentazione. Sulla cancellata sopravvive una scritta: «Eridania, zuccherifici nazionali». Un tempo era l'unica industria esistente in questa zona, assieme alle fornaci. Tutti volevano fare la campagna dello zucchero; e il nome greco del Po, legato al mito di Fetonte, era proprio «Eridano». Si usava ancora dare nomi mitici alle industrie, perché le industrie erano giganti mitici mentre ora crollano abbandonate. In pochi chilometri si passano tre Regioni, cinque province, ma il territorio sembra essere una macroregione convertita a biomasse, inceneritori e serre di plastica in cui si producono angurie, meloni, pomodori datterini.
Nelle serre ci lavorano gli stranieri, partono alle 5 del mattino con una bottiglia d'acqua ed escono quando nelle serre ci sono 60 gradi e le vampate di calore producono allucinazioni. In questo territorio il 15% della popolazione è straniera, perlopiù di origine africana. Dalla campagna, all'orizzonte, si vedono i camini della Centrale Termoelettrica di Moglia. Fino a pochi anni fa aveva più di 300 dipendenti, si chiamava Enel, poi l'hanno privatizzata, è diventata Edipower e va a carbone. Ha 80 dipendenti. Impressioni. Perché dalla strada l'orizzonte confonde quasi sempre cielo e terra, perché le campagne abitano anche le città e i paesi, le frazioni, perché i campanili vengono avvistati da questo immenso tavolo essiccatore, ma si raddoppiano, si confondono specchiandosi nell'acqua, perché i pioppi anziché costruirsi come natura ci raccontano della ripetizione indistinta della volontà dell'uomo, perché le strade sembrano andare sempre nello stesso punto e quindi da nessuna parte. Non c'è nulla di romantico in tutto questo, ma qualcosa di suggestivo, qualcosa che ha a che fare con l'antropologia e la sociologia. Non sembra nemmeno esserci decadenza, ma solo l'illusione degli uomini che vedevano nell'urbanizzazione delle zone rurali un modo per sentirsi più invincibili, forse meno fragili. Lo spleen padano colpisce qualsiasi viaggiatore che davanti alle grandi cattedrali del disastro o anche solo dentro alla mangiatoia può vedere il futuro.
Si passa lungo Strada Virgiliana per andare verso Finale Emilia. Lì ci sono le terramare che ci ricordano popolazioni dell'età del bronzo e i loro commerci. Le terramare sono l'espressione più complessa dell'attività commerciale di tremila e cinquecento anni fa. Ora di quei commerci, di quegli uomini, sono rimasti cumuli argillosi dei loro scarti che un tempo venivano utilizzati come concime per la terra. Di noi invece rimane il vuoto delle enormi stanze che un tempo, fino a pochi anni fa erano uffici, reparti specializzati, erano magazzini per lo stoccaggio di merci, erano parcheggi a lisca di pesce, erano insegne che indicavano piani di insediamenti produttivi, erano pese pubbliche ormai sfondate e inutilizzabili. A fermarsi ed ascoltare l'aria che circonda queste aziende dismesse si può ancora immaginare il vociare concitato del capofabbrica e il macchinario nuovo fatto arrivare dall'America per produrre di più, con più precisione, con meno costi. È tutto un rumore di fondo, un brulichio prodotto dagli escavatori cingolati, dai carrelli elevatori a telescopio.
Se dovessi dire che colore ha questa macroregione direi che è grigia. Ne ho visti tanti di grigi, ma i grigi di questo pezzo di terra posto tra Mincio, Adige, Po, Secchia e Panaro sono il grigio più grigio che possa esistere. Gli altri colori non esistono più, anche il verde di qualche campo d'erba medica o il rosso delle pietre faccia vista non hanno la forza di affermarsi come il grigio delle industrie dismesse, chiuse, mai riaperte, in crisi, e anche tutti gli altri colori si fanno grigi anch'essi. Qua e là quel grigio si fa chiaro vedendo i tetti in amianto che non verrà mai smaltito da nessuno. Percorrendo le strade comunali, le statali, le regionali che portano dalla Lombardia al Veneto fino all'Emilia questo paesaggio sembra il Texas. Piloni dell'alta tensione lo attraversano da un capo all'altro, coi fili pendenti su lunghe distanze. La strada è sopraelevata rispetto i campi, e si vede l'orizzonte fino a lontanissimo, se l'afa non offusca l'aria. Tutta una pianura, alla mia destra e alla mia sinistra, con gru appoggiate qua e là ad indicare che l'uomo ha voglia di riempire questo eterno vuoto, o forse ne ha solo paura e deve far fischiare la cazzuola perché così s'illude che l'economia canti.
A questo punto, mentre sto tornando al punto da dov'ero partito, sarebbe perfetto incontrare un capriolo che sbuca dal fosso e attraversa la strada, ma nessun animale a incoronare il mio desiderio perché anche le storie lineari, così come l'industria, sono in crisi. Ci sarà da decostruire. Ma ci penserà la speciazione a risolvere i problemi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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