Viaggio fra gli ultimi «hutong» memoria della Pechino imperiale

I quartieri tradizionali sono ormai pochi. Un tempo erano 3.600, oggi qualche centinaio. Rasi al suolo da Mao, perché borghesi, e dal progresso

Tino Mantarroda PechinoL'uomo con la tuta arancione sta seduto su uno sgabello fuori dal suo posto di lavoro. Sembra un impiegato dell'Anas, la tuta macchiata, sporca. Fuma con le labbra serrate una Zhongnanhai, l'equivalente delle Nazionali senza filtro. Nel mentre chiacchiera animatamente con un signore appoggiato al muro. Dietro di loro un cartello. Figura rossa, ideogramma come una specie di capanna indiana, men: a sinistra. Figura blu, ideogramma più complesso e incomprensibile, women: a destra. Tutto intorno un penetrante odor di candeggina. L'uomo con la tuta arancione è il custode del bagno pubblico. Probabilmente la figura più importante di tutta Ju'Er hutong, la stretta via all'interno di un denso quartiere tradizionale fatto di basse case a corte, in cinese siheyuan. Si trova qualche chilometro a Nord della città Proibita, vicino a Gulou, la Torre del Tamburo, e Zhonglou, la Torre della Campana. Molte delle case del quartiere ancora non hanno la toilette, per cui all'inizio della via si trovano i bagni pubblici che sono il vero punto di aggregazione sociale. Al mattino è comune vedere gli abitanti della zona ancora in pigiama andare al bagno con un asciugamano sulla spalla. La sera, in ciabatte, hanno lo spazzolino. Fino ai primi anni Duemila questi bagni pubblici erano fatiscenti: le turche non avevano porte e gli orinatoi erano poco più di una canaletta dove scorreva l'acqua. La carta igienica era un lusso. Nel 2008 l'effetto Olimpiadi ha contribuito al rifacimento di tutti i bagni della città, un beneficio per tutti, residenti e turisti. Il punto 3 del regolamento, scritto in inglese, è esplicito: «Ogni utente ha diritto gratuitamente a un pezzo di carta igienica di 80 centimetri di lunghezza, 10 di larghezza». Quando si dice il progresso. Lo Ju'Er hutong e tutte le viuzze vicine fanno parte di uno degli ultimi quartieri di hutong rimasti nella capitale cinese. Un tempo erano oltre 3.600, oggi qualche centinaio. Un buon quarto era stato distrutto da Mao prima del 1976, assieme alle mura imperiali e centinaia di templi taoisti e buddisti costituiva la testimonianza di un passato borghese da spazzar via. Dove non è arrivata la furia della Rivoluzione Culturale è arrivata la modernizzazione forzata di questi decenni. Interi quartieri sono stati rasi al suolo e sostituiti da palazzi di venti piani e torri dalle forme strane. Per anni l'incubo di chi viveva in questi quartieri era un ideogramma tinteggiato di blu: Chai, da abbattere. Compariva dalla sera alla mattina e non c'era nulla da fare se non prendere quel poco di indennizzo cui si aveva diritto e andarsene. Per lasciare spazio a un gigantismo architettonico orientato in verticale che ha fatto sempre più assomigliare Pechino a qualsiasi altra città asiatica, brutta e senza personalità, e sempre meno a quello che era: un gioiello immutato nei secoli. Mai bombardata e mai conquistata, nessun'altra grande capitale era così intatta e uguale a se stessa come quella cinese. La prima mappa dettagliata di Pechino, completata nel 1750 sotto il regno dell'imperatore Qianlong, segnava tutti i vicoli e le stradine degli hutong, strade che seguono ancora, quando ci sono, la medesima direzione. È quel che c'è intorno a essere cambiato. Peccato. Peccato perché un tempo Pechino era una città bassa, fatta di quartieri rannicchiati, tagliati a fette da rettilinei infiniti che formavano una scacchiera immensa, che si estendeva per chilometri. Certo: sei mesi l'anno Pechino era, ed è, una città grigia. Grigi i mattoni con cui si costruivano i muri; grigie le tegole dei tetti a pagoda. Grigio il cielo, quando la pioggia non cade per mesi e tutto è coperto da una patina di polvere. Polvere che arriva dal deserto non lontano; polvere di carbone che viene usato come combustibile; polvere delle costruzioni infinite che cambiano il volto della città giorno dopo giorno. E ovviamente grigi erano anche gli hutong, con alberi solitari che spuntavano dietro i muri di cinta, che poi sono quasi tutto quello che vedi di questi quartieri. Alberi che in inverno perdono tutte le foglie e diventano poco più che un palo cui attaccare le biciclette. Tutto questo dava forma e una patina di colore a una città geometrica e labirintica. «Un quadrato dentro un altro quadrato che contiene a sua volta un quadrato e così via» scriveva Goffredo Parise in Cara Cina. Dove il primo quadrato è il centro della Città Proibita, cuore di una mappa urbanistica a rettangoli concentrici che oggi si espande seguendo il tracciato dei Ring, gli anelli di grandi circolari (è in costruzione il settimo, il sesto misura 130 chilometri) che movimentano il traffico crescente. Ma Pechino, la capitale del Nord, è nata come città imperiale, e come tale era ispirata all'ordine, all'equilibrio, all'armonia, che è il succo stesso della civiltà cinese. Una città dove accanto allo sfarzo dei palazzi imperiali e alla confusione della metropoli moderna sopravvive tutta una vita di quartiere che fa sembrare queste zone un altro mondo. Non c'è traffico, non ci sono rumori. La vita è ancora in parte scandita dalle voci dei venditori di strada che a tutte le ore passano per le strette vie degli hutong. I vicoli sono larghi giusto per far passare un'auto, per cui il mezzo migliore per attraversarli, oltre alla bicicletta, sono i tricicli elettrici con cassone. In triciclo passano i raccoglitori di stracci, plastica e rottami che pedalano gridando ad alta voce. E anche i venditori di formelle di carbone, ottime per animare il fuoco su cui mettere i wok. E sul triciclo, seduti a cassetta, passano il tempo anche i tanti anziani del quartiere. In inverno sembrano grandi il doppio: imbacuccati in più strati di pesanti cappotti non rinunciano a passare il tempo in strada per far due chiacchiere, giocare a dama, o portare a passeggio gli uccellini di compagnia chiusi nelle gabbiette di legno. Osservano con aria bonaria i non pochi stranieri che hanno scelto di vivere qui, in una zona che pian piano si è andata riempiendo di piccoli bar per occidentali, ristoranti dove si servono hamburger e taverne sporche dove si vendono spaghetti e ravioli. Tutto intorno, nelle vie più grandi e trafficate, si trovano negozi per gli hipster locali: vendono vestiti di design, biciclette a scatto fisso, piante da appartamento e una miriade di piccoli oggetti da adolescenti giapponesi che pure fanno impazzire i giovani cinesi. Popolano questo che è forse il più vivo tra gli hutong della città. Intorno a Nanluoguxiang, una strada che incrocia Ju'er Hutong ed è letteralmente invasa dai giovani cinesi, pullulano gli ostelli e i negozi alla moda. Dentro una vecchia casa a corte hanno anche aperto uno Starbucks. Altrove tutto questo si chiama gentrificazione. Ma qui basta girare un angolo per trovarsi immersi in un mercato di strada tutt'altro che scintillante. Sulle stuoie appoggiate per terra vendono frutta e verdura, i macellai appendono interi quarti di maiale ai pali, i fornai sfornano le focaccette basse tipiche di Pechino e i pescivendoli tagliano la testa alle loro povere vittime su ceppi improvvisati, lasciando le viscere a terra. Tutto questo è la vita vera, che resiste. Il resto è museo, che pure non manca.Nascosto dietro i grandi palazzi di Wangfujin, la prima arteria commerciale moderna sorta a ridosso della Città Proibita, al numero 24 di un vicolo tranquillo si trova infatti lo Shijia Hutong museum. È stato realizzato grazie a una collaborazione tra la municipalità e la Prince's Charities Foundation China, la fondazione del principe Carlo. È al centro di un hutong che un tempo era abituato da intellettuali, scrittori e diplomatici. Dentro ci sono memorabilie varie piuttosto celebrative e inutili, qualche foto raccattata dagli abitanti e una riproduzione dell'interno di una abitazione degli anni Sessanta.

Nulla di memorabile, se non fosse per una formidabile installazione sonora. Ti siedi, metti le cuffie e sei immerso nei suoni dell'hutong. Riesci persino a sentire gli uccelli. Manca solo l'odore dei bagni pubblici, e l'omino vestito d'arancione che li deve pulire.

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