Il Vietnam che rispunta in Irak

Di guerra, in Irak od altrove, tutti si sentono in dovere di dire, anzi di sproloquiare, spiegando agli altri il da farsi. Magari neppure hanno fatto il militare a Cuneo; e però come spiegano sempre volentieri quanto non sanno. Ormai pacifisti, o peggio giornalisti, si fingono dei guerrieri provetti, pontificando di strategie militari. E purtroppo alle loro speranze presunte, ma confezionate in politichese, si lascia sempre più giudicare: ad esempio se una guerra possa o no vincersi. Così è per l'Irak, dove la guerra persa da Saddam, viene riconfezionata come la disfatta di Bush. E così, purtroppo, fu anche per la guerra del Vietnam, data per persa quando ancora invece aveva tutte le condizioni per essere vinta. Come sostiene Mark Moyar, professore in una università militare degli Stati Uniti, nel suo Triumph Forsaken The Vietnam War, 1954-1965. Libro accurato, ricolmo di buon senso e di mestiere; e di cui la stampa s'è occupata molto negli Stati Uniti. Invece per niente in Italia, nazione dove il trionfo dei saputi è del resto incontrastato da tempo. Eppure Moyar distrugge con calma tutte le presunzioni date per scontate sulla guerra del Vietnam.
A riguardo ancora non c'è dilettante che desista di spiegarci quanto il governo di Diem fosse corrotto, la guerra non fosse negli interessi degli Stati Uniti, e una guerra con la Cina fosse verosimile. Frasi che aiutarono i comunisti a vincere una guerra persa, ed immolare milioni di morti, pure in Laos e in Cambogia. Eppure restano il recitato contrario della verità. Nel libro, pubblicato dalla Cambridge University Press, si dimostrano sensati i pareri di quanti ritenevano che una ulteriore intensificazione dei bombardamenti nel 1965 avrebbe finito la guerra in pochi mesi o settimane. Il regime del Nord non li avrebbe retti. Invece la guerra limitata, e il maggior impegno di terra, li riportò all'ottimismo.
Già del resto si erano congratulati nel novembre del 1963 per il colpo di Stato, assecondato dagli Stati Uniti, che depose e uccise Ngo Dinh Diem. Ho Chi Min considerò l'evento una fortuna insperata: «Non posso credere che gli americani siano stati così stupidi». E il comitato centrale ne convenne: «Diem era tra le più forti personalità che resistevano al popolo e ai comunisti. Tutto quanto poteva essere fatto per annientare la rivoluzione lui lo fece: era il lacché più competente degli imperialisti americani». In effetti la sua fine fece svanire tutti i notevoli successi dei nove anni precedenti, e iniziò l'instabilità dei governi del Sud. Ma il peggior nemico del Nord comunista era inviso alla stampa democratica, che lo descriveva come un tiranno senza presa, cattolico in un popolo di sètte buddhiste. Al contrario analizzando i documenti del Vietnam del Nord Moyar mostra come Diem avesse ridotto la guerriglia all'impotenza. Per di più dopo aver distrutto quegli imperi del crimine che prosperavano prima di lui. Le morali mal calcolate di Cabot Lodge, ottuso ambasciatore americano e della stampa liberal, sortirono gli effetti più immorali.
E anche i leader buddhisti erano tutt'altro che anime sante. Insomma una guerra vinta, fu persa negli Anni Sessanta per madornali errori. Non ultimo ritenere che occorresse limitare la guerra per evitare l'intervento della Cina. Quando gli archivi consultati da Moyar dimostrano proprio l'opposto. Insomma questo libro molto meticoloso avrebbe davvero molto da insegnare pure oggi.

E infatti è apparso un articolo di Moyar sul New York Times, che compara gli errori del Vietnam e quelli che si rischiano in Irak. Vi si paragonavano Maliki a Diem; e le sette buddiste con quelle musulmane. Silenzio: nessuno pare badarvi in Italia.

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