Non si stupra così mamma Rai. La signora ha i suoi anni, zoppica, veste un po’ all’antica, non ci vede bene, qualche volta inciampa sui nomi, sa di olio canforato e non se la sente di andare ogni volta a prendersi un tè caldo, ma adesso che gli europei stanno per finire Gentili e Dossena, Bezzi e D’Amico ti fanno simpatia. Chi se ne frega se non hanno lo style Sky. Se su Twitter e su Facebook fanno il conto degli strafalcioni, se i tuoi amici un po’ troppo intellettuali si mettono le mani nei capelli ogni volta che il commento tecnico sfiora atmosfere da scapoli e ammogliati. Alla fine questo viaggio pallonaro in Polonia e Ucraina meglio viverlo da strapaese, che con le telecronache digitalizzate che hai già sentito milioni di volte alla playstation. Non c’è dubbio. I nostri figli sono cresciuti con la voce di Caressa e Bergomi giocando a «Fifa duemilaetot», ma noi no. Noi siamo i figli di Martellini e Pizzul. E il vecchio Beppe Bergomi era in campo, con baffi da diciottenne, quando Martellini gridava per tre volte campioni del mondo e i tedeschi a testa bassa e Pertini che si sta per lanciare dal palco reale e Juan Carlos che lo ferma e la pipa di Bearzot e le mani di Zoff alzate e replicate sul francobollo disegnato da Guttuso. Vabbé, saremo nostalgici, magari con ancora i colori anni ’80 nello sguardo, senza dubbio un po’ più vecchi, ma quando tutti sparano sulle voci Rai, ti viene voglia di difendere il vecchio carrozzone.
Non è per fare i bastian contrari. Neppure per dare ragione a Garimberti, che se l’è presa con i giornalisti delle pay tv troppo ironici sulla tv di Stato. Non è per Caressa, che pure si lamenta di una «mancanza di una nuova scuola Rai». No, non è questo. È l’atmosfera che si respira in giro da «ora vi spiego io come si racconta una partita» che sta diventando stucchevole. Non è possibile che il primo che passa davanti a uno schermo si metta a discettare di ritmo e tecnica narrativa neppure fosse Niccolò Carosio. La verità è che se una volta eravamo un popolo di commissari tecnici, ora ci stiamo improvvisando popolo di telecronisti (e commentatori). Il massimo lo ha raggiunto un amico scrittore che se tocca un pallone inciampa che si è messo a contestare i pareri di Dossena. Quando gli è stato chiesto: «Ma scusa tu ti sei mai occupato di calcio». La risposta è stata: «No, ma si vede benissimo che il commento non è televisivo. Gli manca il tono da vero esperto». E pazienza se Dossena era con Bergomi tra i ventidue di Madrid. In panchina, certo, ma in panchina la partita si vede, e commenta, meglio.
Chi lo dice, in fondo, che il modello Sky sia l’unico possibile? La Rai, con le sue sviste, magari tocca corde di romanticismo meno elitarie. Non tutti hanno Sky. Non tutti si riconoscono nello stile Caressa. La Rai è come certe vecchie zie che ogni tanto fa piacere reincontrare. Gente che parla semplice, che non ripete come i comici navigati il tormentone di successo, che entra in casa senza darti lezioni su tutto, ma si stupisce e disorienta se chiami un divano troppo basso «futon» e il pesce crudo «sushi». Scambia Jordi Alba con Arbeloa e storpia il nome di Xabi Alonso in Xavi Alonso? Non si fa, ma a qualcuno può stare sulle scatole la mania di non italianizzare neppure per sbaglio il nome di Nagatomo (Nagatomò), giurando che in Giappone si pronuncia così. Anche a Martellini capitò di ribattezzare per dieci minuti Altobelli con Jacobelli. Erano i mondiali messicani del 1986. Fu la sua gaffes più clamorosa. Non l’unica. Ma a quei tempi i professionisti della telecronaca non spuntavano da sotto la sedia con il ditino alzato.
L’accusa che si fa oggi ai telecronisti Rai è di sembrare dilettanti allo sbaraglio. Ma se fosse tutto un trucco? Magari sbagliano in modo consapevole perché hanno letto Fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco.
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