Alessandro M. Caprettini
da Roma
Chiede voti al centrodestra per «rafforzare» la missione in Libano ma ironizza sul fatto che quello possa chiedere in cambio lassenza di discontinuità con Irak e Afghanistan. Ammette che i nostri soldati in riva al Litani possono correre «rischi seri», ma poi si affida allo stellone per evitare si concretizzino. È il solito Massimo DAlema: sicuro di sé, pronto a esaltare il nuovo protagonismo ulivista in politica internazionale, ma per nulla disposto ad arretrare di un millimetro in cambio di un eventuale appoggio.
Sarà che sa perfettamente che il decreto sulla missione - di cui si è iniziato a discutere ieri a commissioni riunite Esteri e Difesa, a Montecitorio e che sarà ripreso martedì prossimo, prima di passare al voto - ha buone possibilità di passare senza grane. Sarà che vuole lasciare unimpronta. Ma rispetto a Fini che gli fa notare come anche a Nassirya e Kabul i nostri soldati siano andati come «operatori di pace» e a Casini, il quale gli fa presente come la vantata «discontinuità sia solo propaganda», fa spallucce. Più importante, evidentemente, per il nostro ministro degli Esteri, evitare frizioni con la sinistra massimalista che qualche riserva continua ad averla. E così DAlema infarcisce il suo intervento di moniti a Israele, annunciando la richiesta (poi superata dai fatti) a Olmert «dellimmediata fine del blocco aero-navale» del Libano, di concessioni agli hezbollah che si augura - grazie proprio alla nostra missione - si compenetrino solo nella politica libanese «rinunciando a violenze e milizie».
E non basta. Dice il vicepremier e ministro degli Esteri che i problemi in Medio Oriente non si risolveranno finchè resta viva «la questione palestinese». E allora occorre cominciare a garantire un cessate il fuoco «a Gaza dove la situazione è drammatica», sostenendo con maggior decisione - e forse interventi finanziari - il presidente Abu Mazen. Un torrentello di accuse a Israele, condito nuovamente dallipotesi che la Ue possa fare interposizione non solo in Libano, ma anche su quel confine (cosa che peraltro proprio ieri il premier palestinese ha seccamente rifiutato) che suggerisce addirittura a Cossiga di chiedergli come mai non pensi di «dichiarare guerra» allo stato ebraico, restituendo i territori occupati ad Hamas e compagni.
Ma a sinistra va bene così. Si convincono rifondaroli, comunisti, verdi e altri della «bontà» della terapia DAlema. È vero: qualcuno (la Deiana, Prc) avrebbe gradito labolizione secca se non la sospensiva degli accordi militari italo-israeliani stipulati dal governo Berlusconi. Ma cè sempre tempo. Per ora basta allala massimalista la gragnuola di accuse a Israele, e lapproccio morbido con Teheran che DAlema spera possa trovare alla fine una intesa anche con gli Stati Uniti nonostante sul nucleare Ahmadinejad faccia orecchie da mercante. Per il ministro degli Esteri è chiarissima la «discontinuità» col governo di centrodestra. Se si parte, è solo perché si tratta di «missione di pace». Che esistano dei rischi, e anche grossi, non può negarlo: ammette infatti che da un lato la fragile situazione libanese, dallaltro lipotesi di «potenziali attentati di cellule terroristiche», possano creare pericoli «seri». Ma una volta messe le mani avanti, dice di aspettarsi buoni risultati dallinserimento nella forza multinazionale di soldati islamici di Turchia e Qatar. Chiede a Damasco di uscire dallautoisolamento che finirebbe per penalizzarla, esalta il ruolo italiano capace - a suo dire - di aver convinto gli americani a passare al multilateralismo che impedisce oggi avventure come quella irachena, risoltasi «in uno smacco».
Che in questo modo DAlema conquisti i voti del centrodestra è dubbio. La Lega, per bocca di Maroni, gli ha già detto no («relazione lacunosa e deludente»); La Malfa, per i repubblicani, ha osservato che aumentano anzichè decrescere la preoccupazioni «dato che non si capiscono modalità e obiettivi della missione e si è scelta una linea pilatesca tra Teheran e Washington e sugli Hezbollah». Casini è invece pronto a offrire il suo sì, al di là delle lamentele sulla «propaganda».
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