Vuoi scrivere? Prima devi superare un test

In questi tempi in cui si affacciano sempre più prepotentemente i discorsi sulla bioetica e sull’eugenetica, discorsi che partendo da una base di tipo scientifico vanno poi a toccare i livelli profondi della coscienza e dell’immaginazione di tutti noi, sarebbe interessante ripensare cosa la letteratura ha detto e profetizzato intorno a questi temi. Il Novecento ha conosciuto due profeti disarmati che hanno ingaggiato una battaglia durissima contro la civiltà della tecnica e i suoi derivati. Sono due autori che non godono di buona fama in Italia. Uno è D. H. Lawrence che, partendo da un distretto minerario del Nottinghamshire, predicò tutta la vita contro l’eventualità sempre più probabile che le emozioni, l’eros, la natura, l’umanità venisse spenta dentro gli uomini per farne robot, cose, zombie. L’altro è Henry Miller, vociante e allegro quanto il primo era teso e tragico, che scrisse contro i fantasmi della tecnologizzazione coatta del mondo quel libro capitale che è L’incubo ad aria condizionata. Lawrence e Miller hanno una filosofia, un’idea complessa di letteratura e di mondo, sono due grandissimi propagatori di flussi di energia: se ne accorsero negli anni ’70 Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo, e poi non a caso, procedendo la misera deriva di stagnazione e di insensatezza che ha portato ai nostri giorni, sono stati messi da parte. C’è poi tutta una linea di scrittori diversi che hanno avuto la loro da dire sulle prospettive di una dittatura della scienza e della tecnica esercitata sulla società occidentale, e penso a Wells, Orwell, Huxley e all’ultimo lucidissimo Jünger. Una parte, la parte migliore direi, della fantascienza ha agitato i medesimi temi. Insomma, cosa prepara il predominio del sapere scientifico e della tecnica applicata al nostro domani? Lo scienziato, e anche certi filosofi, tenderanno a dire che porterà conquiste mirabolanti, progressi inauditi, decisivi trionfi della ragione. Da un diverso punto di vista, potrebbe invece portare appiattimento, disumanizzazione, tirannia. Potrebbe far nascere in laboratorio nuovi mostri, come quegli animali chimerici di cui si comincia a parlare senza che nessuno insorga. Il problema è aperto. È morale, religioso, estetico, filosofico: tocca le corde dell’immaginario collettivo, e dunque è giusto che scrittori e artisti vi si applichino. Cosa accadrebbe se in una società sempre più tecnologizzata anche l’ispirazione e lo stile, tutto quello che contraddistingue l’opera di uno scrittore, venissero sottoposti a test, verifiche, attestati di idoneità? Le persecuzioni cui furono sottoposti gli scrittori dal nazismo, dallo stalinismo, dal maoismo sarebbero poca cosa al confronto. Devo queste riflessioni alla lettura del libro Il gene del dubbio (Ponte alle Grazie) di un giovane autore greco, Nicos Panayotopoulos, che immagina in un futuro non troppo lontano l’avvento del «test Zimmerman», un test cui chiunque voglia pubblicare un libro dovrà sottoporsi per verificare se ha o no il talento necessario. La creatività è troppo libera e aleatoria per lasciarla ai critici letterari, sospettati anch’essi di propensioni artistiche. La macchina eugenetica invece è efficace, democratica, inappellabile. Se la sua risposta è positiva, bene. Se no, cambia mestiere. Certo, alla mostruosità del test ci saranno i ribelli, questo sale dell’umanità mai abbastanza benedetto, e alla fine rinascerà il dubbio, la quintessenza della libertà umana contro tutte le macchine e le tirannie, anche della ragione.

Chi ne voglia sapere di più, legga il libro di Panayotopoulos. Uno di quelli buoni, tra i tanti fasulli, vuoti, senza ispirazione né talento che affollano le librerie, e che si riconoscono a prima vista. Altro che «test Zimmerman».

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