Seba Pezzani
Da quando l'Italia ha scoperto la suggestione della parola festival, sono sempre più numerose le rassegne musicali estive che si susseguono nel nostro paese. Di festival blues ce ne sono tanti ma quello che si tiene ogni weekend nella bassa parmense merita un posto di riguardo. Il Roots'n'Blues & Food Festival (www.rootsandblues.org/) terminato la settimana scorsa e gemellato con il festival di Clarksdale, Mississippi, cerca di sposare la tradizione della buona cucina emiliana con quella della musica del diavolo. A fare da cornice alla manifestazione è stata una mostra di fotografie in bianco e nero. Non una mostra qualunque, ma scatti storici che catturano le emozioni e di alcuni dei maestri del blues e dei loro epigoni bianchi che ne hanno raccolto l'eredità. Direttamente da Oxford, Mississippi, era venuto ad aprirla l'autore delle fotografie, una piccola leggenda della musica, al punto che Martin Scorsese lo ha voluto in due episodi della sua serie di documentari sul blues.
Dick Waterman passa per un tizio un po' burbero. In realtà, è un fiume in piena, una fonte inesauribile di informazioni e aneddoti sul mondo della musica, e non solo sul blues. Oltre ad aver saputo cogliere in immagini gli umori di un mondo intriso di storia, documentato nello straordinario libro fotografico Roots'n'Blues (Mattioli 1885, pagg. 94, euro 18), Waterman ha fatto da impresario e manager personale a parecchi di quei misconosciuti artisti, sviluppando con loro un sodalizio umano prima che professionale. «Molti dei musicisti con cui ho lavorato vivevano nel sud. Mississippi John Hurt, Robert Pee Williams, Lightnin' Hopkins, per esempio. Non erano certo sofisticati, ma la cosa più importante è stato guadagnarmi la loro fiducia. Giravano pochissimi soldi. Ai bluesmen andavano solo le briciole. Ho cercato di ottenere per i miei artisti paghe più oneste, contratti discografici e, soprattutto, rispetto. Ma non è stato facile. La fama che questa gente ha raggiunto non è scaturita dalle loro prime registrazioni bensì dalle ristampe, spesso pubblicate postume». Dick Waterman, accompagnato dalla giovane fidanzata Cinda - che confessa di aver sedotto facendole avere un ricercatissimo biglietto di prima fila per un concerto di Bonnie Raitt - ha frequentato anche il gotha della musica. «Lui è il più grande», dice indicando Ray Charles che ringrazia il pubblico, illuminato da un faro. «E questa è la mia foto preferita». Come dargli torto? Ci sono anche scatti di Dylan, Stones, Janis Joplin.
Il suo debole per le donne è evidente, perché di Janis parla volentieri. «Una ragazza fragile, una persona vera. È stato un onore incontrarla e conoscere gente come Jimmy Page, Mick Jagger o Van Morrison. Sembravano tanti scolaretti adoranti quando si trovavano in compagnia dei vari Muddy Waters, Howlin' Wolf o Bobby Blue Bland. Parliamo di artisti famosissimi, di celebrità assolute, eppure, quando erano insieme a Muddy Waters o John Lee Hooker, si spogliavano degli abiti delle star e tornavano a essere dei giovani fan, nient'altro che dei fan felici di stare con il proprio idolo».
Deve essere stata dura lavorare col blues in quei tempi pionieristici. «Negli anni '60, gli artisti che rappresentavo, in buona parte misconosciuti, potevano suonare solo nelle coffeehouse. C'erano tre o quattro grossi festival e poco altro. C'era anche qualche musicista molto attivo, come Josh White, Brownie McGhee & Sonny Terry, e il Reverendo Gary Davis. Quest'ultimo era reverendo ed era pure cieco ma, quando una fan lo avvicinava, ci vedeva benissimo. Allungava le mani ma, siccome era cieco e pio, se gli scappava una mano su un seno, nessuno protestava. Quando scoprii Son House, cercai subito di trovargli un contratto discografico. Andai alla Columbia perché sapevo che uno dei suoi massimi dirigenti, John Hammond, adorava Robert Johnson. Pensai che avrebbe messo Son House sotto contratto, visto che Son era stato il mentore di Robert Johnson. Andò proprio così e Son finì nella scuderia della Columbia».
Nel mondo della musica americana sono in molti a mostrare gratitudine a Dick Waterman per aver sostanzialmente strappato all'anonimato John Hurt e il Reverendo Gary Davis e per aver restituito la giusta collocazione al leggendario Son House. Oggi Waterman è anche una sorta di biografo ufficiale di B.B. King. «Sì, sono appena stato a fotografare B.B. King a Indianola, il suo paese natale, a cui fa ritorno ogni anno. Quell'uomo ha una fiducia incrollabile nei suoi mezzi. È consapevole del suo talento e, dunque, ha una forza straordinaria. Molti dei musicisti con i quali ho lavorato erano persone straordinarie. Alcuni, come John Hurt e Fred McDowell, non facevano una musica molto profonda ed emotivamente intensa. Altri, invece, come Son House e il Reverendo Gary Davis, cantavano con un'intenzione quasi spirituale, chiudevano gli occhi e finivano in uno stato di trance emotiva mentre si esibivano». Non c'è bisogno di chiedere niente a quest'uomo. Gli basta guardarti in faccia per capire la tua prossima domanda. «Vuoi sapere di Dylan, vero? Beh, l'ho incontrato un mese fa. Gli ho portato questa vecchia foto e lui mi ha chiesto un poster di una foto che avevo scattato a Ramblin' Jack Elliott. Dylan è sempre Dylan, enigmatico e sfuggente». Ma la vita dei bluesmen è ancora dannata oppure c'è molta poesia intorno a questo ambiente? «Le cose sono cambiate, non c'è dubbio. Ma anche in passato non tutti i bluesmen erano tristi e tormentati. Mississippi John Hurt era un uomo sereno. Certo, molti bevevano, ma alcuni reggevano l'alcol in maniera stupefacente. Oggi, se una canzone di un bluesman del passato viene riproposta da un gruppo o un artista famoso, oppure se fa da colonna sonora a un film o a uno spot pubblicitario, si parla di cifre notevoli.
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