Zidane alla tv: «Non mi pento, è stata offesa la mia famiglia»

Spiace scriverlo, battibeccando fra fratellastri latini, ma in terra di Francia anche il ridicolo attinge la grandeur. Quando vogliono, pomposi e compunti, i nostri congiunti di cattivo umore superano ogni limite. Oggi il loro eroe mitologico, rivestito di orpelli drammatici, è Zizou Zidane, calciatore principe e testa d’ariete, divenuto il simbolo di uno sciovinismo residuale che resiste al tarlo della critica e all’azione benefica dell’autoironia. Zidane è stato perfettamente all’altezza dell’ambiguità e della retorica dei suoi sostenitori: il mio gesto, ha detto in sintesi, è imperdonabile, ma non mi pento. La colpa, ha aggiunto, è di Materazzi che mi ha provocato, offendendo le donne della mia famiglia, mia madre e mia sorella.
Le donne della famiglia – ci permettiamo di notare – sono sacre per tutti, le mamme poi sono purissime e castissime, anche se talvolta se ne potrebbero discutere certe preferenze alimentari. Ma il vero problema non sono né le mamme né Zidane, calciatore non nuovo a gesti di violenza. Il vero problema è il livore antico che in Francia ha portato uomini illustri come Jacques Chirac e intellettuali fin qui ritenuti autorevoli a non accettare la vittoria dell’Italia ai Mondiali. L’Italia no, non può aver vinto, non è giusto che abbia vinto, in realtà non ha vinto. E quindi nasce la leggenda della provocazione intollerabile. Chiunque segue il calcio sa che in campo i giocatori si scambiano insulti irriferibili, che arrivano a mettere in dubbio la moralità delle bisnonne. È un discutibile andazzo, ma è l’andazzo, lo stesso che da sempre attribuisce agli arbitri sventure domestiche, di quelle sulle quali un tempo, nella douce France, molto si rideva. Ma la Francia non sa più né ridere né sorridere, pare.
La Francia, in maggioranza, s’è rifiutata di guardare il gesto violento e sconsiderato di Zidane, l’ha rimosso per giustificare l’interiore rifiuto della vittoria italiana. Nel nostro Paese Francesco Totti è stato criticato senza attenuanti per i suoi sputacchiamenti e nessuno ha difeso De Rossi per aver mollato una gomitata. Ci chiamano «familisti amorali» quelli che coltivano i pregiudizi nei nostri confronti, ma noi sappiamo anche essere severi con i nostri, specie quando abbiamo la sensazione che il mondo ci guardi.
I francesi evidentemente non hanno di questi soprassalti di disciplina e compostezza. E va detto che l’asse franco-tedesco ha funzionato anche per il campionato del mondo, rivelando singolari affinità comportamentali fra i due alleati. Anche i tedeschi si sono rifiutati di guardare e valutare quel che ha fatto in campo il loro Frings; fingendo d’ignorare che le immagini del mondiale potevano essere reperite anche a Timbuctù, si sono preoccupati soltanto di accusare gli italiani di avere fatto la spiata, magari con materiale manipolato, chissà. Nemmeno i tedeschi hanno digerito la sconfitta e darebbero chissà che cosa pur di inventare un cavillo, un pretesto, un falso tribunale che magari ritirasse la coppa agli italiani. Il trofeo potrebbero disputarselo, poi, Francia, Germania e, perché no, l’Inghilterra, i cui giornali popolari hanno dato il massimo del pessimo gusto per screditare gli italiani e incoraggiare i pur antipatici francesi e tedeschi.
Fratelli d’Europa, questa è l’aria che tira. Sotto la pelle dell’Unione si scatenano vecchi pruriti, l’herpes dei pregiudizi anti-italiani è sempre attivo.

Dico questo non perché noi italiani ci si possa compiangere nel vittimismo, ma perché impariamo a infischiarcene dei giudizi acidi di questi parenti stretti. Ridendo, quando occorra, dello stile francese, del giornalismo anglosassone, della serietà tedesca. Della spocchia di chi non ha saputo vincere i mondiali e non li ha saputi nemmeno perdere.

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