Matteo Chiarelli
Milano eterna città dei contrasti. Metropoli ultramoderna di finanzieri e uomini d'affari, e rifugio asfittico per extracomunitari e zingari. Giostra irrazionale di luci e mondanità, e risacca stagnante per barboni e prostitute. Milano ambigua oggi come cento anni fa, quando in piena «Belle époque», il pittore Umberto Boccioni gettava, ironico, lo sguardo nel cuore nobile e frivolo del capoluogo, la Galleria Vittorio Emanuele II.
Qui, sotto le scintillanti luci notturne dei lampioni e delle vetrine, tra i tavolini dei caffè più alla moda, sorseggiando un bitter o un rabarbaro, un tamarindo o un'orzata, si consumava il rito serale di aristocratici e letterati, patrioti e capitani d'industria. Qui però si poteva anche assistere alla baruffa di due sgraziate dame di dubbia fama, e alla rissa sguaiata che in breve avrebbe coinvolto gli astanti, eccitati dagli eventi.
In un parapiglia di luci, suoni e colori, il pennello futurista di Boccioni, nel 1910, ferma per sempre la grottesca «Rissa in galleria», scoppiata davanti alla buvette di Gaspare Campari (in seguito Gran Bar Zucca). Il dipinto di Boccioni sarà oggi al centro dell'incontro organizzato per Milano-Ottagono «ApertaMente» (Galleria Vittorio Emanuele II, ore 21), la rassegna culturale dedicata all'arte, ideata e condotta da Massimiliano Finazzer Flory, che interverrà assieme a Beatrice Buscaroli Fabbri, storica dell'arte e docente di storia dell'arte contemporanea all'Università di Bologna - Ravenna.
«Rissa in Galleria - spiega Finazzer Flory - non è solo una zuffa tra donne, un lancio di sassi contro i vetri del caffè, confusione d'ombre nere e ombre colorate. Rissa in galleria di Boccioni è anche l'opera che rappresenta la città strepitosa con la sua folla moderna, inquieta, nervosa e diversa». «La Galleria è il cuore della città - scriveva a fine Ottocento Luigi Capuana - tutte le pulsazioni di Milano si ripercuotono qui».
Nei lussuosi locali della Galleria, inaugurata nel 1867, si frequentavano artisti, musicisti, scrittori, uomini politici e personaggi di alto rango, insomma tutta la «Milano bene». Boito e Giacosa, Segantini e De Marchi, Cavallotti e Pirelli, Verdi e Toscanini, Dudovich, Carrà e addirittura il re Umberto I prediligevano in particolare i tavoli di Campari, divenuto notissimo liquorista grazie ai suoi originali elisir, agli amari o alle creme alcoliche di sua invenzione.
Tra gli illustri clienti c'era anche Umberto Boccioni, che col suo dipinto immortalò quel bar e nello stesso tempo suggellò sulla tela la nuova poetica futurista: « Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa; canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni ; canteremo il vibrante fervore notturno ».
«Ma che cosa è rimasto - conclude Finazzer Flory - di tutto questo a Milano, epicentro del Futurismo?».
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