Arturo Nathan, metafisica (e angoscia) di un solitario

Fra Salgari e Nietzsche, Schopenhauer e Verne. I tormentati viaggi introspettivi del pittore triestino

Arturo Nathan, metafisica (e angoscia) di un solitario

Siamo nel giugno del '45 e Giorgio de Chirico si indigna per l'insensata violenza dei nazisti, e ci rivela Arturo Nathan: «Era un uomo intelligente, mite, giusto e buono ed è stato assassinato dai tedeschi perché era ebreo». Capiremo di fronte alla sua opera, frutto di una estrema pulizia dello sguardo davanti a una natura educata da civiltà ora scomparse, di cui restano dispersi frammenti, che Nathan era mite, giusto e buono. «Lavorava tutto il giorno, in una società di assicurazioni, a Trieste, per mantenere la sua vecchia mamma e la sera stava per lunghe ore a disegnare e dipingere, o a leggere libri di filosofia e poesia, sempre assorto in un sogno ideale di pensiero superiore e di creazione d'arte».

La vita pratica, parallela alla vita poetica, assimila il destino di Nathan (1891-1944) a quello di altri triestini come Umberto Saba, libraio e poeta, e Italo Svevo, bancario e scrittore. Tensioni sotterranee, destini segreti, misteri di Trieste. E tutti intorno al grande, appassionante tema dell'anima, o meglio della psiche, nella moderna interpretazione della psicoanalisi. Freud arriva a Trieste (e la sorella di Nathan assicura che le opere del medico viennese erano già note al fratello, impegnato lettore di filosofi) attraverso un allievo, Edoardo Weiss.

Molta attenzione presta a questo rapporto tra cultura triestina e psicoanalisi il più recente e scrupoloso esegeta di Nathan, Maurizio Fagiolo dell'Arco, che è anche il più attento studioso di Giorgio de Chirico. È Fagiolo dell'Arco a ricordare una insistente dichiarazione di Giorgio Voghera sui triestini, «neurotici molto tormentati dalla propria neurosi»: e lo specchio di questa condizione è ne La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Così il rapporto metafisica-surrealismo-psicoanalisi trova una verifica nell'opera di Nathan, in parallelo con la letteratura.

I dipinti che esaltano la solitudine dell'uomo come unica condizione possibile, producono questa convinzione di Nathan: «L'arte ha un solo soggetto: lo spirito del suo autore, in ciò che contiene di profondo, di nascosto e in quanto fa parte della sua vita intima». De Chirico ha usato una formula perfetta: «Sogno ideale di pensiero superiore e di creazione d'arte». Una definizione che rappresenta tutta la tensione «metafisica» (anche in senso filosofico) dell'opera di Nathan. E certamente ciò a cui, più di tutto, i dipinti di Nathan possono essere assimilati sono i sogni. Sogni ricorrenti, con navi nel porto o navi naufragate, a significare un viaggio interrotto, una partenza impossibile.

Nella formazione di Nathan convivono Salgari e Nietzsche, Schopenhauer e Verne, così come la sua immaginazione si nutre per discendenza diretta di Friedrich e di de Chirico, senza perdere né originalità né autenticità. Anche per questo de Chirico è illuminante quando racconta e descrive il primo incontro con Nathan a Roma, sotto il segno di una «amicizia nietzschiana». E, ancora, allude alla psicoanalisi quando, parlando di una passeggiata insieme a Nathan per ammirare (con osservazioni acute e originali) il monumento equestre di Missori a Milano («gli parlai a lungo della metafisica che acquistano i monumenti e le statue, in mezzo alle pubbliche piazze, quando sono posti su zoccoli bassi, di modo che sembra partecipino alla vita della città, e gli dissi anche che Schopenhauer consigliava ai suoi contemporanei di non mettere le statue su zoccoli molto alti»), conclude: «Gli parlavo ed egli mi ascoltava, tutto attento e pieno di entusiasmo represso». Ecco un'altra formula efficacissima: «entusiasmo represso».

Pochi dipinti di questo secolo esprimono, come quelli di Nathan, una tale condizione. Non certamente quelli di Savinio, esternamente affine a Nathan, ma di ben diverso spirito. Lo hanno perfettamente inteso, primi a stimolare la moderna ripresa di interesse per Nathan, un quarto di secolo dopo, de Chirico e Antonello Trombadori: «l'immagine senza tempo» dei surrealisti, la geniale contaminazione dechirichiana di reperti «archeologici» e di figurazioni «documentarie» della moderna realtà, fanno sì parte del bagaglio intellettuale di Arturo Nathan, ma ne sono allo stesso tempo gli antipodi. L'ironia, il giuoco (ciò che oggi nel gergo si definisce «ludico») sono estranei a Nathan. Gli sono estranei anche l'ironia e il giuoco di Giorgio de Chirico che, a differenza di quelli di Magritte e di Savinio, conoscono il sale amaro della malinconia e, a volte, si traducono in grida, in urli inascoltati. L'asceta, del 1927, è chiuso in una cappa rigida come di marmo, un sudario inamidato in un'invenzione degna di Adolfo Wildt, con gli occhi che ci guardano allucinati, sbarrati; questa paralisi, questo irrigidimento consentono una visione del mondo a occhi aperti cui soltanto un anno prima Nathan si era sottratto, rappresentandosi a occhi chiusi, come per un rifiuto della realtà che si apre alle sue spalle e dalla quale egli si isola.

De Chirico: «Poi vennero le ignobili leggi razziali e principiarono i suoi affanni e le sue sofferenze, e finalmente è morto in uno di quei campi di concentramento». Prima, negli anni Trenta, gli anni migliori per la pittura di Nathan, nella tensione verso qualcosa di indefinibile, gli affanni e le sofferenze erano soltanto un annuncio. Erano poesia. Adesso c'è la morte. Ciò che resta del mondo è oltre il «cancello rosso» che non ci è consentito valicare per arrivare alla casa, alla montagna, e di lì al cielo. La salvezza è forse in quella prigione.

Quale nostalgia del minaccioso ma aperto mare! L'uomo non guarda più il mare, non sogna più il mito. Non ha più neppure la speranza della partenza, per qualsiasi destinazione, purché non sia qui. Non c'è rimedio alla solitudine come non c'è rimedio alla morte. Fine delle illusioni.

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