«Il sogno di Luigi Serafini» è stata una mostra «ontologica». Diversamente dalle rassegne antologiche, il percorso che è stato raccontato recentemente al Mart non è un resoconto artistico. Serafini si è fermato prima, alla domanda sull'essere che precede ogni tentativo di conoscenza. «Il sogno di Luigi Serafini» (di cui a breve uscirà il catalogo da Silvana Editoriale) è lo studio di Serafini in quanto Serafini, in altre parole lo studio della sua vita. C'è qualcosa di insolito nell'incrocio delle nostre vite. Io tratto quasi solo artisti trapassati. Quando scrissi di lui la prima volta, nel 1981, usai lo stesso approccio che ho verso artisti antichi come Cosmè Tura o Ercole De Roberti. Ho cercato le sue rarità. Poiché se è vero che siamo tutti unici, è evidente che Serafini sia raro come rari sono gli artisti: cento, a volte duecento in un intero secolo, rari tra un'infinità di unicità. La rarità di Serafini equivale a quella di William Blake, il più grande tra i visionari che ricordiamo come illustratore, miniatore, pittore e scrittore.
Nel percorso immaginato al Mart la mostra dedicata a Luigi Serafini coincideva con la mostra «Surrealismi. Da de Chirico a Gaetano Pesce». Si trattava di una coincidenza fisica, poiché le due esposizioni si toccavano, ma anche di una coincidenza storica. In «Surrealismi» si portavano alcune testimonianze di Poesia Visiva, tra queste vi erano l'opera di Corrado Costa o le invenzioni linguistiche di Bruno Munari, premonizioni di quel percorso sorprendente che dal 1978, fino al nostro incontro nel 1981, fece Luigi Serafini. Nei tardi anni '70 come un amanuense o un miniatore Serafini si nascose nel Codex Seraphiniaus, lo straordinario volume pubblicato con Franco Maria Ricci, che evoca l'autore tramite la sofisticazione genitiva latina. Fu quella un'intuizione felice di Franco Maria Ricci, il quale avendo in mente i codici dell'antichità, quelli leonardeschi in primis, trasferì idee e pensieri di Serafini in un libro molto più importante di quanto fosse allora la stessa consapevolezza di sé di quel giovane artista ignoto ai più, battezzandolo tra i grandi di ogni tempo. È esattamente ciò che è successo. Il Codex Seraphinianus è oggi un libro di culto che ha incamminato ai pensieri più fantasiosi almeno tre generazioni, e che continuerà ad alimentare il suo obbiettivo ontologico.
Con grande determinazione Ricci inserì il Codex nella collana «I segni dell'uomo», uno dei suoi più grandi e riusciti prodotti editoriali. Però parte del merito del successo del Codex è anche mio. Ricordo che Ricci, in dialogo con il grande tipografo Giovanni Battista Bodoni, avrebbe voluto stampare il volume su carta azzurra; fui io a quel tempo a impormi chiedendo di stamparlo su carta bianca affinché fossero identici, nella forza delle riproduzioni, alla realtà. È stata una fortuna, altrimenti avremmo le immagini di Serafini su un fondo carta da zucchero che ne avrebbe tradito il senso; invece, i due libri meravigliosi stampati ovunque, riediti da Rizzoli, pubblicati in Cina, in Russia e Stati Uniti, sono il suo sogno sulla carta e in quanto puro sogno chiedono oggi come allora un fondo neutro di museo in cui possa risaltare più di ogni cosa la straordinaria forza creativa e la varietà inventiva della sua arte. Serafini è come Francesco del Cossa o Cosmè Tura. Anche lui appartiene ai grandi illustratori di eterni sogni, che ci rivela. La mostra «ontologica» è quindi la mostra di un artista che vive come se fosse già vissuto in un altro tempo, sopravvivendo al suo medesimo sogno.
L'esposizione l'ho intesa anche come un omaggio al mio maestro, Francesco Arcangeli, il quale pure aveva un gusto meno curioso del mio. Arcangeli a un certo punto della sua vita ebbe una crisi tanto terribile da spingerlo alla follia. Il fattore scatenante fu la censura e la ricusa dell'artista da lui più amato: Giorgio Morandi. Arcangeli tentò di raccontare la storia di cinquant'anni di arte italiana, collegando Morandi ai futuristi agli informali, a Fautrier, a Jackson Pollock. L'idea non piacque a Morandi, che impedì la pubblicazione del libro. Arcangeli impazzì, ma la sua pazzia era per me una fonte di grande ispirazione. Tra i suoi grandi vi era Blake, assieme a altri grandi, da William Turner fino a Pollock. E muovendosi nell'ambito degli artisti bolognesi, emiliani, padani, da lui discendono le intuizioni su Giannetto Fieschi, Mattia Moreni e Sergio Vacchi, tre dei molti artisti che sono stati esposti nella mostra «Surrealismi». Intrecci misteriosi di artisti rimossi, dimenticati, cancellati, tanto grandi da aver contribuito alla ricusazione di Arcangeli da parte di Morandi che oggi rievochiamo esplicitandone l'intuizione e la forza.
I surrealismi vanno, dunque, da Giorgio de Chirico e Savinio al suo ultimo erede e testimone che è Serafini. Sono il racconto di cinquant'anni di Surrealismo rimosso, e qui comincia la storia di un uomo che ha vissuto in un sogno senza fine, il suo, che però è diventato un patrimonio comune al mondo intero.
Siamo di fronte, con Serafini così come con «Surrealismi», a un percorso che si presenta come la digestione di qualcosa che c'è, ma che l'Italia ha rimosso, la critica ha ignorato e le mostre non hanno mai premiato. Il percorso di meraviglie di una mostra «ontologica», con un artista vivente, indica che il Surrealismo non può morire, perché la pittura è prima di ogni cosa un sogno.
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