Il poema "politico" di Claudiano in difesa dell'Impero

La rivolta dei figli della Terra, soffocata dagli dèi, è proposta in chiave anti-barbari

Il poema "politico" di Claudiano in difesa dell'Impero

Secondo alcuni storici l'anno 410, quello del sacco di Roma capeggiato del visigoto Alarico, segnò di fatto la fine dell'Impero Romano d'Occidente, sessantasei anni prima della deposizione di Romolo Augusto da parte di Odoacre. Se il 410 non fu la fine, fu quanto meno l'inizio della fine. Chi avrebbe dovuto fermare quell'orda debordante? In teoria Onorio, figlio di Teodosio. Quattordici secoli dopo il sacco, il britannico Edward Gibbon lo definì «l'imperatore indifferente». Per non dire inetto: sottovalutò le frequenti invasioni di campo barbariche, le proteste dei sudditi e la conseguente perdita di alcune province; senza dubbio un arbitro scadente. Inoltre, quando Alarico gli si propose come generale dell'Impero, fece saltare la trattativa, alimentando l'aggressività dell'altro: fu la scintilla che incendiò l'Urbe. E quando avvenne il passo falso decisivo? Con l'assassinio di Stilicone, l'uomo che Teodosio aveva designato come tutore di Onorio e del suo fratello maggiore Arcadio, giovanissimi eredi dell'Impero d'Occidente il primo e di quello d'Oriente il secondo. Stilicone era l'unico autentico difensore dell'Impero, anche se di origine vandala, ed era console e magister militum, in sostanza il capo delle forze armate. E chi fece uccidere Stilicone? Lo stesso Onorio.

Nel 396, il dodicenne Onorio aveva ottenuto il terzo consolato, il primo da orfano di Teodosio, morto l'anno precedente. E a scrivere il carme ufficiale in suo onore era stato un tale Claudio Claudiano, poeta di origine probabilmente egiziana e di lingua greca il quale, giunto in Italia, a Roma era subito entrato nell'importante cerchia degli Anicii e si era fatto notare per i carmi encomiastici ai consoli Olibrio e Probino. Fin da subito Claudiano vide in Stilicone il baluardo contro gli invasori, colui che poteva correggere quello che era stato il fatale errore di Teodosio: l'aver concesso ai Goti una blanda autonomia all'interno dei confini dell'Impero. Claudiano fu per Stilicone una sorta di capo ufficio stampa che usava il media a lui congeniale, i versi, passando dal greco al latino, in chiave anti-barbari. Così chiude il suo poema La guerra dei Goti: «Qui l'itala terra copre i Cimbri e i fieri Goti,/ annientati da Stilicone e da Mario, eroici capi./ Sappiate, popoli temerari, rispettare Roma». Il «qui» è Pollenzo, dove nell'aprile 402 Stilicone, dopo aver liberato Milano dall'assedio di Alarico, ne sconfisse l'esercito e addirittura ne catturò alcuni familiari. Si noti l'accostamento di Stilicone a Mario e alla vittoria di questi sui Cimbri di Aix-en-Provence, avvenuta esattamente cinque secoli prima...

Ma se nella Guerra dei Goti Claudiano si mostra a proprio agio con la cronaca che diventa Storia in tempo reale, in altri due poemi (incompiuti) ispirati a Ovidio, si tuffa nel Mito, recuperandolo e utilizzandolo in funzione di rappel à l'ordre, di chiamata alle armi contro i nemici. Nemici che sono per l'autore il corrispettivo attuale del Male ancestrale, infero. Nel Ratto di Proserpina, ovviamente il Male è il rapitore Plutone, e la soluzione del dramma da parte di Giove ha l'agro sapore del compromesso. Agro come il sapore dei semi di melagrana che la povera Proserpina è condannata a mangiare nei sei mesi di permanenza nell'Ade, l'autunno e l'inverno, prima e dopo aver assaporato la libertà in superficie, in primavera e in estate. Anche il patto fra Teodosio ed Alarico che prevedeva la permanenza degli stranieri entro i limites dell'Impero era stato un compromesso...

Ma ora no, non è più tempo per i compromessi, sembra suggerire, anzi gridare Claudiano in La guerra dei Giganti recentemente proposto da La Vita Felice a cura di Giovanni Andrisani (pagg. 137, euro 12, testo latino a fronte). Qui è la rivolta della Terra a Giove a originare la lotta. Dopo che i Titani, figli da lei generati con Urano, sono stati sconfitti da Giove, la Terra ci riprova con i Giganti: «Ma voi, o esercito giunto finalmente a vendicarmi,/ liberate i Titani dalle loro catene, difendete vostra madre./ Ci sono mari e monti: non abbiate alcun riguardo per queste mie membra:/ Purché Giove soccomba non rifiuto di essere un'arma io stessa». Iride mette in allerta gli dèi, che subito si mobilitano, inclusi Plutone e Proserpina. Troppo grande è la potenza dell'intero Olimpo ricompattato: i Giganti vengono sconfitti. «Il tema politico alla base del mito della gigantomachia - chiosa Andrisani - è anch'esso un'eredità del modello ovidiano: nella ribellione dei Giganti contro i magni Palatia caeli è da vedere un riferimento alle guerre di Stilicone contro i popoli germanici ai confini dell'impero».

Claudiano non poté, come nessun altro, vedere realizzato il suo sogno. Dopo il 404 se ne perdono le tracce.

Gibbon, in Storia della decadenza e caduta dell'Impero romano, punta il dito, sebbene in forma dubitativa, contro il prefetto del pretorio d'Italia Ruffo Sinesio Adriano, che Claudiano aveva preso in giro in un epigramma dandogli del trafficone. L'ultimo suo atto noto fu, nonostante tutto, il panegirico per il sesto consolato di Onorio. Che quattro anni dopo fece uccidere Stilicone. Nel 410 giunse l'irreparabile disastro.

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