
Se mai un periodo nella storia italiana, con tutte le dovute differenze, ricordasse questo in Israele, sarebbe quello dell'esplosione mediatica e popolare contro Silvio Berlusconi, quando metà Italia e quasi tutti i media, non potendo accettare la svolta post resistenziale che indicava la strada della democrazia liberale e capitalista, crearono un mito autoritario, una rivoluzione antigovernativa. Così è con Netanyahu: un gioco frenetico nelle piazze, sugli schermi, sui giornali cerca semplicemente di spingerlo fuori dal suo ruolo, accusando di voler portare il Paese al fascismo. L'accusa profonda è quella di non essere di sinistra (anche se è difficile definirlo di destra, laico e internazionale com'è), di lunga durata, e votato dagli ebrei sefarditi a fronte dell'origine bengurionista, socialista, europea, della nobile tradizione che vuole restare al comando.
Una storia comune nel mondo democratico, ma molto più drammatica in un Paese in guerra. In questi giorni la folla in piazza, mentre suonano le sirene e si combatte di nuovo a Gaza e al Nord, ha il fine di indurre Netanyahu a rinunciare a licenziare il capo dello Shin Bet, i servizi segreti interni, Ronen Bar, e di far recedere la proposta di detronizzare il procuratore generale Gali Baharav Miara, che si è già pronunciata in difesa di Bar e in mille altre prese di posizioni in scarsa sintonia col governo.
La sua delegittimazione è complessa, prende tempo, per Miara si sono già raccolte molte firme di legislatori di primo piano, e questo ha a che fare con la riforma del sistema giudiziario: Israele non ha una costituzione scritta, il suo sistema legale nasce da una rivoluzione nata sotto l'egida del giudice Aharon Barak, che ha arrogato al giudiziario poteri quasi illimitati di rovesciare praticamente tutte le decisioni del governo.
Bar è stato un capo sfortunato: arguto sul terreno (eliminazioni, identificazioni, rifugi a Jenin e a Gaza), ma si è arenato sulla visione generale per un'impostazione classica: sopire e calmare. Ha frainteso l'attacco del 7 ottobre, ancora al mattino alle 3,30 hanno sottovalutato ciò che si stava preparando sotto i loro occhi e non lo hanno considerato degno di essere comunicato al primo ministro. Netanyahu, a sua volta ha le sue responsabilità, ma non quella specifica delle mosse di quella mattina: dal 7 ottobre dopo che Bar in molte occasioni ha conservato un atteggiamento diverso da quello molto belligerante del premier e un suo stile più in accordo col ministro Gallant e con Biden, ha deciso da tempo di porre fine alla loro collaborazione. All'accusa che Bar è stato licenziato perché aveva preparato le carte per il Qatargate che accusa un collaboratore nell'ufficio di Netanyahu di aver preso denaro da Doha, il premier ha risposto che è vero il contrario: dopo che si è concretizzata la scelta di dismetterlo dal suo ufficio, Bar avrebbe sfoderato il dossier. Di certo in democrazia un impiegato dal governo, per quanto importante, non dovrebbe rifiutare la decisione di chi lo aveva arruolato.
Spesso Israele affronta un esercito e dei servizi superpotenti che vogliono che la politica lavori per loro, invece che l'esercito per il governo. Ma Israele è l'unica democrazia del Medioriente ed è bene che metta da parte l'odio interno specie in guerra.
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