Alessandro Cola*
Sarà capitato a molti in questi ultimi anni di aver sentito almeno una volta il termine influencer. Un vocabolo ormai sulla bocca di tutti, quasi abusato, che ha superato nettamente le frontiere del marketing e della comunicazione pubblicitaria, diventando di uso comune anche tra i più giovani. Partendo dal termine stesso, non è difficile intuirne il significato: colui che influenza il comportamento di qualcuno. Nel 2019, si preferisce ascoltare il proprio vicino, virtuale e non, piuttosto che lo specialista di turno, con tutti i pro e contro che questo comporta. Un consiglio disinteressato risulta molto più autentico e affidabile rispetto a quello legato a scopi promozionali: è da questo principio che nasce il ruolo di influencer, il nuovo passaparola digitale.
Le aziende adottano strategie efficaci per creare reti di persone pronte a condividere i loro valori e le loro scelte, generando così un sentimento efficace e positivo. Non c'è più un approccio verticale, molto caro agli Anni 90, ma orizzontale. È fondamentale, per risultare competitivi e non autoreferenziali, far parlare gli altri al proprio posto. Le persone si lasciano coinvolgere, il senso di appartenenza alla propria comunità è molto forte e i costi sono molto più bassi rispetto ai media tradizionali.
Se prendiamo il caso Icardi e Wanda Nara, però, vediamo anche il lato oscuro di questa impalcatura. La forte risonanza mediatica avuta nei social non solo mette in luce quanto il loro ruolo da «influencer» superi di gran lunga quello di calciatore e di procuratrice/showgirl, ma anche come sia facile giungere a conclusioni superficiali partendo da futili dettagli. Un like, un tweet o un commento possono davvero far pendere l'ago della bilancia da una parte o dall'altra e il rischio di venir giudicati per un nonnulla è tipico di questa era social.
D'altro canto, si sente molto parlare di scuole e corsi per diventare influencer, ma questo sembrerebbe già essere una contraddizione in termini. La figura che influenza l'altro con il proprio stile di vita, funziona solo se spontanea, libera, disinteressata. Solo se realmente appassionata a un determinato settore e già ambasciatrice di determinati valori. Non può essere un lavoro quindi, per il semplice fatto che gli interessi economici sarebbero in contrasto con l'autenticità tipica del passaparola. In virtù di questa considerazione, personaggi come Emily Ratajkowski, Cristiano Ronaldo, Diletta Leotta e gli stessi Icardi e Wanda per fare un esempio, non possono essere definiti influencer nel senso più specifico del termine, ma delle star a tutti gli effetti. Potranno essere ottimi testimonial, con l'unica differenza che il messaggio pubblicitario avrà connotati e strumenti alternativi rispetto ai media tradizionali. Il processo in questo caso non sarà di influenza, ma di emulazione.
Acquistare un bene promosso da una star infatti, significa attuare un atteggiamento inconscio di mimesi, spesso acritico e dunque diametralmente opposto al passaparola. Scegliere invece un determinato servizio o prodotto perché influenzati da qualcuno che si reputa genuino, mette in atto meccanismi basati sulla comprensione e sulla consapevolezza.
Il mercato sta già dando forti segnali su quale direzione si andrà a prendere; non è un caso che negli ultimi mesi sta crescendo sempre di più la figura del micro influencer, il «vicino di casa» che consiglia alla sua cerchia di amici in completa libertà. La strategia vincente, da qui a qualche anno, sarà quella di creare delle community di veri appassionati, persone che sposano in maniera disinteressata i valori di un brand a prescindere dal tornaconto economico. Il loro stile di vita e il loro aspetto reale sarà ciò che influenzerà davvero la scelta delle persone.
Questa bellissima impalcatura di relazioni virtuali, starà in piedi a una sola condizione, se si continuerà a tenere bene a mente il valore più caro ai millennial: l'autenticità.
*Ceo e fondatore Xpress
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