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"Dopo 57 anni, verità su mio padre" L’uomo che doveva uccidere Mao

Montano Riva Barbaran. Ore 17 del 17 agosto 1951: a Pechino viene giustiziato Antonio Riva, nato a Shanghai, papà di 4 bimbi. Prima dell’esecuzione, un’esaltata esce dalla folla e gli strappa un occhio. L’accusa? Inventata dal regime

"Dopo 57 anni, verità su mio padre" 
L’uomo che doveva uccidere Mao

Montano Riva Barbaran ha taciuto per 57 anni. Oggi che finalmente s’è deciso a parlare dell’assassinio del padre, non traspare odio dal suo racconto: «I cinesi l’hanno sicuramente torturato. Ma sono certo che l’esecuzione avvenne nel massimo ordine. Quello è un popolo che coltiva il rispetto delle regole anche nel male». Il sinologo francese Jean Pierre Remy descrisse la fine in tutt’altro modo: «Una donna emerse di colpo davanti a lui dalla folla: gli balzò al viso e gli strappò un occhio dall’orbita, brandendolo ebbra di gioia sopra la testa, morto eppure ancora vivo e palpitante». I genitori sollevavano sulle spalle i bambini festanti affinché potessero vedere meglio. Un colpo di pistola alla nuca e l’osceno spettacolo era finito. A Pechino gli orologi segnavano le 17 del 17 agosto 1951. Per terra, nella piazza vicino al Ponte del Cielo, giacevano coperti di sangue i corpi dell’italiano Antonio Riva e del giapponese Ryuchi Yamaguchi, accusati d’aver attentato alla vita del presidente Mao Tse-tung.
«In combutta con la Cia. Un capo d’imputazione inventato a tavolino, una pena capitale irrogata senza processo e senza avvocato difensore dopo un anno di detenzione nelle galere del regime comunista, una confessione estorta con le peggiori sevizie», sintetizza il figlio del condannato a morte. Congedatosi dalla Polizia di Stato dopo 11 anni col grado di capitano e poi, fino alla pensione, segretario della Confindustria a Verona, Montano Riva abita a Longàre, sulla Riviera berica, in una villa storica ereditata dalla zia che lo adottò aggiungendogli il cognome dei Barbaran Capra, famiglia nobile di Nanto. Come i suoi tre fratelli, è nato a Pechino. All’epoca dei fatti aveva 8 anni. «Dopo 10 mesi di detenzione, Popi», è così che in famiglia hanno sempre chiamato il babbo, «fu trascinato fino a casa da un drappello di poliziotti. Aveva una camicia lacera e una barba da Robinson Crusoe. Abitavamo a ridosso della Città imperiale. Ricordo il grido di Momi, mia madre: “Bambini, via dalla finestra, via!”. Lo fotografarono prima con le mani alzate mentre un agente fingeva di puntargli la pistola e poi accanto a un mortaio arrugginito che usavamo come portaombrelli. Erano le “prove” da pubblicare sul Quotidiano del Popolo. Fu l’ultima volta che mia madre lo vide. Le impedirono di salutarlo, ma lui le sorrise».
Montano Riva ha rotto il suo lungo riserbo perché il fratello minore, Marco, ha raccolto a Pechino nuove prove sull’innocenza del padre, che si aggiungono a quella, inoppugnabile, apparsa in un libro uscito da poco, L’uomo che voleva uccidere Mao; una testimonianza diretta che l’autrice, Barbara Alighiero, per anni corrispondente dell’Ansa da Pechino, ha raccolto sulla piazza Tiananmen dalla viva voce di Zhao Ming, ex viceministro della Pubblica sicurezza: «È passato mezzo secolo, non abbiamo mai detto a nessuno, straniero o cinese, cosa è successo davvero... Il caso di quel Riva ce lo siamo per lo più inventato noi. Io lo so bene, ero vicedirettore della Prima sezione investigativa. Se non ci fosse stato Riva, ne avremmo trovato un altro e avremmo avuto la nostra bella congiura americana. Era quello che ci serviva allora».
Il figlio dell’italiano sacrificato sull’altare della propaganda maoista non recrimina e appare pacificamente rassegnato al fatto che l’osteria giù all’angolo della strada che porta alla sua villa, a due passi dalla Rotonda palladiana, per una beffa del destino sia ora gestita da tale Zhu Ruiyong e che gli avventori, fino a ieri già saturi di ombre de vin alle 9 del mattino, oggi debbano fare il pieno di ombre cinesi e svenevoli balletti in costume trasmessi da Cctv, il canale satellitare della China central television. Persino delle Olimpiadi che cominceranno fra una decina di giorni dice: «Sbagliato boicottarle ora. Semmai bisognava impedire che finissero a Pechino».
Come si fa a sentirsi affratellati nel nome dello sport a una nazione che ancor oggi detiene il record mondiale di esecuzioni capitali, schiavizza i dissidenti nei laogai e tortura i prigionieri?
«Guardi, se uno casca nelle mani della giustizia italiana non lo fucileranno e neppure gli strapperanno le unghie, ma insomma... Da non augurarsi al peggiore dei nemici».
Mi racconti di suo padre.
«Era nato nel 1896 a Shanghai, dove mio nonno Achille, originario di Gorgonzola, sposatosi nel 1893 con Teresa Barbaran Capra, era giunto nel 1880 per occuparsi di sete. A 15 anni papà fu mandato in Italia a studiare nel liceo Alle Querce di Firenze. Nel 1916 si arruolò volontario e partì per la Grande guerra. A Oslavia fu ferito due volte. Frequentò il corso di pilota a Pisa e gli fu affidato il comando della 78ª squadriglia col grado di capitano. Con Francesco Baracca, diventò uno dei 41 assi dell’aviazione, meritando la medaglia d’argento al valor militare e l’Ordine militare di Savoia. Nel 1920 ritornò in Cina. Fu corrispondente della Stampa e grazie alla sua preparazione divenne consigliere militare e buon amico di Chiang Kai-shek. Si sposò due volte. La prima con Emi Coradi, fiorentina; non ebbero figli e lei se ne andò con un olandese. La seconda con Catherine Lum, americana del Minnesota cresciuta a San Francisco».
Sua madre. Come si conobbero?
«Momi era figlia di un avvocato, Burt, e di un’artista famosa, Bertha Boyton Bull, che aveva imparato in Giappone la tecnica del wood printing: le sue xilografie già nel 1933 comparivano in copertina su Fortune. Bertha nel 1921 lasciò il marito negli Usa e con le due figlie, Catherine ed Eleanor, s’imbarcò per Tokyo. Siccome nell’albergo in cui era solita scendere tardavano a darle la camera, fece caricare i bagagli sulla prima nave in partenza per la Cina, dove non aveva mai messo piede. La nonna poteva mantenere le figlie da sola perché i suoi disegni le venivano pagati 500 dollari di allora, quasi 9.000 euro di oggi. Mio padre fu adocchiato da Catherine a Pechino: vi si era trasferito nel 1932 dalla natia Shanghai».
Il console d’Italia a Shanghai nel 1930 era Galeazzo Ciano, fresco di nozze con Edda Mussolini.
«Infatti fu Ciano ad accreditare mio padre presso il governo cinese come addestratore di piloti, anche perché sapeva che nel 1920 s’era occupato della trasvolata Roma-Tokyo di Arturo Ferrarin e Guido Masiero, ideata da Gabriele D’Annunzio».
Che ricordi ha della sua infanzia?
«Educati alla maniera anglosassone, noi figli potevamo stare nel salotto di casa con gli adulti solo il sabato sera. La biblioteca era zeppa di volumi che Popi si faceva procurare in tutto il mondo dall’amico Henry Vetch, titolare della libreria francese a Pechino. Davanti a casa nostra abitava Walter Genthner, tedesco, quattro figli come mio padre. Poco più avanti il giapponese Yamaguchi, che aveva anche lui quattro figli».
Tutti e tre finiti nei guai con suo padre, mi risulta.
«La retata coinvolse l’intera via. Furono arrestati anche monsignor Tarcisio Martina, che aveva fondato oltre 200 scuole in Cina; Quirino Vittorio Gerli, funzionario delle dogane cinesi, e un suo impiegato locale. Ma costoro, chi prima chi dopo, vennero liberati».
Riva e Yamaguchi no. Perché?
«Erano le vittime ideali. A parte i trascorsi fascisti, mio padre non godeva di alcuna protezione diplomatica, perché la repubblica popolare proclamata da Mao un anno prima non era ancora stata riconosciuta dall’Italia. E Yamaguchi impersonava l’avversario storico: il Giappone. La Cina era assai meno monolitica di quanto non apparisse. Il dittatore comunista doveva fare i conti con l’opposizione interna di Chiang Kai-shek ed era tenuto d’occhio da Chou En Lai e Lin Piao. La gente moriva di fame. I rapporti con l’Urss e con gli Usa erano pessimi. Quale miglior espediente di un golpe inventato per dimostrare che la situazione era sotto controllo? Fu coinvolto anche il colonnello David Barrett, capo della missione Dixie, che nel 1944 era stato inviato in Cina dal presidente Franklin Delano Roosevelt per aiutare Mao contro i giapponesi. Barrett venne fatto passare per un agente della Cia. Un falso plateale che serviva per dare spessore al complotto. Barrett ci frequentava, visto che mia madre era una cittadina americana, e questo aggravò la posizione di mio padre».
Sulla base di quali elementi fu incriminato?
«Le accuse furono due: la detenzione del mortaio portaombrelli e una piantina del presunto attentato. Il pezzo d’artiglieria era privo della piastra di supporto e il meccanismo di brandeggio faceva bella mostra come fermacarte sulla scrivania di mamma. Ciò nonostante, secondo gli aguzzini, mio padre avrebbe dovuto trascinarlo fino alla piazza Tiananmen, piazzarlo davanti a mezzo milione di persone e usarlo per colpire Mao. Fino al 2000 il presunto cimelio del fallito attentato, con accanto un proiettile, è rimasto esposto nel museo della polizia di Pechino. Ma si trattava di un mortaio cinese e non di quello fotografato a casa nostra privo di piastra e munizioni. L’hanno rimosso perché poteva saltare all’occhio la differenza».
E la piantina?
«L’aveva schizzata Yamaguchi, rappresentante di pompe idrauliche, per delineare la parabola di un getto d’acqua dalla Tiananmen alla Città imperiale in caso d’incendio. Peccato che il Quotidiano del Popolo, che a suo tempo la pubblicò come prova della congiura, non si fosse preoccupato di tradurre alcune scritte pubblicitarie in giapponese presenti ai bordi del dépliant: spiegavano la funzione di quella che venne spacciata per la traiettoria di un proiettile».
Bastò così poco per una condanna a morte senza processo?
«A mio padre fu estorta una confessione. Ora, per capire di quali violenze fisiche e psicologiche erano capaci i maoisti, dovrebbe leggere il libro Come divenni comunista scritto da padre Fortunato Tiberi, che fu imprigionato subito dopo l’uccisione di mio papà e per un analogo periodo, 11 mesi. Oppure la storia di padre Alfeo Emaldi, che il 16 novembre 1951, per paura di tradire sotto tortura il segreto della confessione, si amputò la lingua con una lametta da barba».
Perché per 57 anni lei ha taciuto?
«Non solo io, anche i miei fratelli Marino, Maria e Marco. Chi ci avrebbe creduto? Avremmo dovuto scontrarci con quelle che mia zia Eleanor chiamava “le anatre della pace”».
Che significa?
«Vede, la sorella di mia madre aveva sposato un diplomatico inglese, sir Colin Crowe, che fu capo della delegazione del Regno Unito all’Onu e trattò la pace con l’Egitto. Dal 1950 era stato mandato a Pechino. Quindi la zia avvicinava gli stranieri, soprattutto giornalisti, che arrivavano in Cina e ne ripartivano convinti che il comunismo di Mao fosse “diverso”. Alcune “anatre della pace”, come Renata Pisu, inviata di Repubblica in Estremo Oriente, le ho conosciute anch’io. Nel 1980, quando tornai in Cina con una delegazione commerciale, a casa dell’addetto militare dell’ambasciata italiana incontrai Tiziano Terzani. Indossava la giacchetta delle guardie rosse abbottonata fino al collo».
Ma poi Terzani fu espulso dai cinesi.
«Sì, ufficialmente per contrabbando. In realtà fu cacciato perché aveva cominciato a indagare sull’odissea di mio padre. Il che lo riscatta dal punto di vista dell’onestà intellettuale».
Lei come seppe dell’esecuzione capitale?
«Credo di non averlo mai saputo. A noi figli Momi ripeteva sempre che Popi era in un posto bellissimo e che un giorno ci saremmo rivisti là, tutti insieme».
Dove fu sepolto suo padre?
«La mamma andò a recuperare la salma e la traslò a Chala, lo stesso cimitero dove riposava il pioniere gesuita Matteo Ricci. Dopo una via crucis nel fango, sotto un violento temporale, arrivarono i poliziotti che minacciarono di arresto alcuni missionari per aver aiutato la moglie del “traditore” nel pietoso compito e irrorarono il feretro di Ddt con la scusa della campagna contro le mosche. Lo scalpellino, terrorizzato, incise sulla lapide solo le iniziali».
Ha mai pregato su quella tomba?
«Il mio lavoro mi ha riportato in Cina altre sei volte. Ci ho provato spesso, ma i tassisti, chissà perché, non trovavano mai il cimitero, devastato durante la “rivoluzione culturale”. Forse la tomba non c’è più: mi risulta che le lapidi siano state trasformate in tavolini per picnic. Durante una di queste missioni ufficiali sono andato a cercare la nostra casa di Pechino. Ho trovato solo il muro di cinta e il cancello. La vicina chiesa di San Giuseppe l’avevano adibita a officina: sull’ingresso c’era ancora la croce. Una sera a cena ero seduto accanto al capo del Ccpit, l’organismo governativo che promuove il commercio estero. Fu piacevolmente sorpreso dal fatto che io fossi nato a Pechino. Saputo che mio padre era morto in Cina, mi domandò in inglese: “È deceduto per cause naturali?”. Not exactly, non esattamente, gli risposi. In sala calò il gelo».
Che ne è stato di sua madre?
«Aveva 43 anni quando rimase vedova. L’8 settembre 1951 lasciò Pechino senza nulla, a parte noi, i suoi quattro figli. Immagini una donna americana, che non conosce nessuno e che sbarca per la prima volta in Italia. Ha sempre creduto nella provvidenza e nella provvidenza ha trovato tutte le risposte. Non s’è mai risposata. Ci ha fatto da mamma e anche da papà. È morta nel 1983 in questa casa, di crepacuore. Una settimana prima la sorella era stata stroncata da un infarto. “Perché non sono morta io? Eleanor aveva ancora suo marito da accudire”, si crucciava. La visse come un’ingiustizia. È come se avesse voluto raggiungerla».
Nel 1951 il presidente del Consiglio era Alcide De Gasperi. Non fece nulla?
«Nessuno mosse un dito. Fosse dipeso dal governo italiano, i figli di Antonio Riva sarebbero finiti in orfanotrofio a Viareggio. Anzi, da Roma ci arrivò la richiesta di rimborsare i soldi che erano stati anticipati per il nostro viaggio in terza classe sulla nave Ugolino Vivaldi».
Che cosa prova quando sente parlare della Cina?
«Niente. Credi che certe cose debbano accadere solo agli altri. Quando capitano a te, o le interiorizzi o ti ammali. Ho cercato di non ammalarmi.

Mio padre avrebbe dovuto capire che un italiano a Pechino non poteva sopravvivere a Chiang Kai-shek, all’invasione giapponese e anche a Mao. Io sarei fuggito. Ma quella era la sua patria».
(418. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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