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Accendi il computer che mi serve un prestito

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Addio banca, adesso chi ha bisogno di soldi può limitarsi ad accendere il computer. Perché anche i prestiti sono diventati social. La rivoluzione ha un nome inglese: peer to peer lending, che a volte viene scritto anche con una di quelle sigle che piacciono agli impallinati della rete, p2plending. All'italiana stiamo parlando di prestiti tra privati cittadini che si incontrano su una piattaforma digitale. Che cosa vuole dire? Semplice: se ho bisogno di soldi (per i semplici consumatori di solito non si va oltre i diecimila euro, anche se per le aziende si parla di cifre oltre i centomila) posso andare su Internet e iscrivermi a una delle società che offrono il servizio, in tutto sono una decina. Si danno un po' di informazioni sulla propria affidabilità, ma non viene chiesta nessuna garanzia, tutto avviene via pc e la pratica dura al massimo due o tre giorni. Poi, se tutto va bene, arriva il denaro, perché dall'altra parte della Rete ci sono altri privati che hanno l'interesse opposto a chi chiede un prestito: investire qualche risparmio ottenendo un buon rendimento. La società di «social lending» fa da intermediario, concorda con le parti interessate i termini dell'accordo e incassa una commissione legata alla differenza tra il tasso pagato da chi riceve il prestito e quello versato a chi mette a disposizione i soldi. Alla fine ci guadagnano tutti: costi e burocrazia sono ridotti al minimo e in linea di massima le condizioni sono migliori di quelle offerte dalle banche.

In giro per il mondo il sistema ha già dimostrato di funzionare: in tutta Europa i soldi prestati «peer to peer» tra il 2013 e il 2016 hanno raggiunto i 4,8 miliardi di euro. La parte del leone la fa l'Inghilterra con 3,9 miliardi e proprio in Inghilterra è nata nel 2004 la prima società a utilizzare questa formula, Zopa. Negli Usa i prestiti concessi nel 2015 hanno raggiunto i dieci miliardi di dollari, mentre il vero paradiso per questo tipo di operazioni è, sorprendentemente, la Cina. A Pechino e dintorni, sempre nel 2015, ben 66 miliardi di dollari sono passati di mano attraverso le piattaforme digitali.

BOOM ALLE PORTE

Di fronte a questi numeri quelli italiani fanno sorridere: i prestiti concessi (il dato è di aprile) nel complesso hanno superato di poco i 134 milioni. Una miseria. Ma il tasso di crescita è impressionante: +262% rispetto ai 12 mesi precedenti. E in un anno o poco più il numero delle società attive nel settore è quasi raddoppiato. A spiegare il ritardo della Penisola sono, probabilmente, la lentezza nell'adottare le nuove tecnologie e la tradizionale diffidenza degli italiani per i prestiti personali (a cui i peer to peer possono essere assimilati). Una sana prudenza è del resto più che giustificata. Dal punto di vista giuridico nel nostro Paese l'esercizio professionale del credito è riservato a banche e società finanziarie. Altra cosa è il prestito tra privati, non solo del tutto legale ma anche contemplato dal codice civile. Gli intermediari, però, le piattaforme digitali, devono registrarsi almeno come istituti di pagamento e sono quindi soggette alla vigilanza della Banca d'Italia, che è dunque il prerequisito legale per la loro operatività.

Problemi regolamentari a parte, il vero rischio di chi affida soldi a una delle società attive nel social lending è quello che chi riceve il prestito non lo restituisca. Tutti gli operatori del settore dichiarano però tassi di insoluto bassi, soprattutto se li si confronta con la montagna di crediti in sofferenza che appesantiscono i bilanci delle banche tradizionali. «Nel nostro caso la percentuale di default è intorno al 3%», spiega Maurizio Sella, numero uno di Smartika, gruppo attivo in Italia da qualche anno e controllato da una serie di investitori italiani e britannici. «Per tutelare chi presta i soldi abbiamo una triplice difesa: prima di tutto un processo rigoroso di selezione dei creditori. Poi il frazionamento: la somma che riceviamo viene divisa in almeno 50 prestiti diversi e l'esposizione al singolo creditore non è dunque mai superiore al 2%. Poi abbiamo anche una polizza assicurativa che copre fino al 2,5% delle somme concesse». Smartika offre un rendimento medio lordo intorno al 5% per una somma bloccata intorno ai trenta mesi, ma chi impegna il proprio denaro può scegliere un profilo più o meno speculativo, a cui corrispondono rischi e rendimenti diversi. «Circa un terzo dei prestiti che concediamo vengono usati per piccole ristrutturazioni, un terzo per l'acquisto di auto o moto, un terzo per pagare altri finanziamenti più cari». Quanto al tasso pagato dal creditore il cosiddetto Taeg (tasso annuo effettivo globale) va di solito dal 6 al 9,5%, in linea di massima più favorevole di quelli disponibili sul mercato dei prestiti personali.

«Quello dei tassi è però solo uno degli elementi su cui si basa l'interesse verso il peer to peer lending», spiega Pietro Cesati, amministratore delegato e cofondatore di Soisy, altra società che opera nel settore. «A contare sono anche gli aspetti social. Verso le banche c'è una diffidenza profondissima e i clienti si regolano di conseguenza. Nel nostro caso, chi ci affida soldi chiede magari l'amicizia su Facebook e spesso ci dà suggerimenti su come migliorare l'attività». Soisy è attiva da poco meno di un anno e ha concesso oltre 500mila euro di finanziamenti. «Nella fase iniziale non abbiamo mai avuto difficoltà a trovare risparmiatori che mettessero a disposizione le risorse. La fase più delicata è stata quella della selezione dei richiedenti il prestito», continua Cesati, ex manager di uno tra i maggiori istituti di credito italiani. «Negli ultimi mesi abbiamo stretto una serie di partnership con siti di e-commerce e attività commerciali che offrono la possibilità di finanziamenti al consumo attraverso di noi. E anche in questo caso a favorirci è la semplicità: la maggior parte delle operazioni si può fare semplicemente con uno smartphone».

GRANDI E PICCOLI

Una variante del prestito social è quello rivolto alle aziende. In questo caso i risparmiatori non finanziano altri privati ma piccole e micro-imprese. Il leader è Borsadelcredito, primo istituto autorizzato da banca d'Italia, fondato nel 2013 da un gruppo di consulenti attivi nel settore creditizio e da alcuni investitori. Le regole del gioco non cambiano: tutto avviene sulla Rete, senza burocrazia e praticamente in tempo reale. «Nel giro di 24 ore siamo in grado di dire sì o no a un finanziamento», spiega Antonio Lafiosca, numero uno della società. Anche in questo caso l'impresa che ha bisogno di soldi, deve presentare (via internet) pochi indispensabili documenti. Gli algoritmi di un «cervellone» informatico fanno il resto: accedono alle banche dati in grado di dare informazioni sull'azienda e su chi la gestisce; confrontano i risultati con la web reputation ricavabile da un'analisi del materiale presente sulla Rete. L'esito finale è una sorta di voto (rating o scoring) con cui viene sintetizzata l'affidabilità dell'impresa, la possibilità di concederle un prestito e l'eventuale tasso di interesse. I risparmiatori che hanno prestato soldi sono qualche migliaio, i prestiti attivi in questo momento (fino a 50-100mila euro) un paio di centinaia. Nel gruppo sono intervenuti alcuni azionisti di peso come P101 (tra i soci molte banche) e Azimut, tra i leader italiani del risparmio gestito. E anche in questo la percentuale di chi non restituisce i finanziamenti è molto bassa, sotto il 3%.

«Del resto guardi alla montagna di crediti in sofferenza delle banche», spiega Lafiosca. «Arrivano tutti dai grandi gruppi. I piccoli o piccolissimi pagano per forza. L'impresa è tutto quello che hanno. Per loro non pagare vuole dire davvero la fine».

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