Addio blairismo Crolla Brown e finisce un’era

Qualunque sia l’esito delle elezioni europee e comunque finisca il disperato tentativo di Gordon Brown di resistere alla testa del governo di Londra nonostante la defezione di sette ministri, una cosa è certa. Con la crisi che sta travolgendo i laburisti finisce un’epoca che, nel bene e nel male, ha esercitato una profonda influenza anche fuori dai confini della Gran Bretagna: quella del blairismo, da Tony Blair, primo ministro dal 1997 al 2007. Per i primi anni del suo lungo regno, Blair è stato il punto di riferimento dei progressisti europei, l’uomo che, dopo avere rivoltato il suo partito come un calzino, era riuscito a riconquistare il potere dopo quasi vent’anni di opposizione e a far credere che una sinistra rinnovata, liberata dalle scorie marxiste e pronta ad accettare il libero mercato potesse tornare egemone in Europa. La sua stella ha cominciato a declinare quando, in nome del vecchio legame transatlantico, ma anche per convinzione personale, ha appoggiato senza riserve Bush nella guerra contro l’Irak e di conseguenza ha rotto con i suoi sodali socialdemocratici del continente. Per la sinistra italiana, si è addirittura trasformato da alleato in rinnegato. Due anni fa, diventato un peso per il suo stesso partito, ha dovuto cedere dopo molte esitazioni il potere al suo numero due, Gordon Brown; ma, come Margaret Thatcher sul fronte opposto, è rimasto un uomo simbolo e, sul piano personale, è ancora talmente in auge da essere considerato il favorito per la presidenza dell’Unione Europea.
Molti sono i fattori che hanno portato alla fine del blairismo. Pur avendo vinto tre elezioni di fila - una impresa mai riuscita fino ad allora a un leader laburista - Blair non ha saputo mantenere fino in fondo il controllo ideologico del partito, che ha così esaurito progressivamente la sua spinta propulsiva. Allo spirito innovatore degli inizi, che aveva suscitato gli entusiasmi europei, è subentrata gradualmente una mediocre gestione dell'esistente, che si è accentuata quando lo stesso Tony è uscito di scena. Il New Labour ha cominciato a somigliare di nuovo al vecchio Labour, disperdendo l’eredità del suo leader. La lunga permanenza al potere, cui i laburisti non erano più abituati, ha anche favorito la corruzione e il lassismo, culminati nelle scorse settimane nello scandalo dei rimborsi spese dei deputati, che - per quanto trasversale - ha colpito i laburisti molto più dei conservatori e dei liberaldemocratici.
Il colpo finale al blairismo è stato inferto dalla crisi globale. Da un lato, ha rivelato tutta la fragilità dell'economia e tutti i problemi che dodici anni di governo laburista avevano lasciato insoluti, tornando a fare della Gran Bretagna il «grande malato dell’Europa» che era stato negli anni Settanta. Dall’altro, ha rilanciato l'anima socialista del partito, che Blair aveva soffocato, ma non sradicato. Brown ha reagito, sia pure in stato di necessità, con un ritorno allo statalismo d’antan, nazionalizzando le banche in difficoltà e reintroducendo, più per compiacere i suoi elettori che per fare cassa, la tassa sui ricchi che in Italia è stata chiesta anche dal Pd. Per un momento, era sembrato che il suo approccio, sotto certi aspetti simile a quello di Obama, riscuotesse consensi anche fuori dalla Gran Bretagna, ma la sua ripresa nei sondaggi è durata poche settimane.


Ora ci si domanda se, dopo avere operato un ampio rimpasto, Brown riuscirà ad arrivare alla fine della legislatura (primavera 2010), se dovrà cedere la guida del governo a Alan Johnson o se dovrà chiedere alla regina di sciogliere il Parlamento in anticipo. Comunque vada, il New Labour, e con esso il blairismo, ha fatto il suo corso: la Gran Bretagna è pronta a voltare di nuovo pagina.

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