Con lictus che ci ha rubato Rino Joe Sentieri, Rino per lanagrafe e per gli amici, Joe per i fan sparsi di qua e di là dalloceano, la via genovese alla canzone si restringe ancora un poco: Tenco, De André, Bindi, Lauzi e ora lui, spentosi ieri a 82 anni in un ospedale di Pescara dove oggi si celebreranno le esequie. Personalmente, non mi è possibile immaginare Rino nel momento del trapasso: tanto la vecchiaia aveva risparmiato la sua vivacità, lestroversione contagiosa, perfino il viso roseo e giovane sotto i capelli ieri rossicci ma ormai bianchissimi.
Mi sono sempre chiesto come le vicende duna vita davvero spericolata non avessero fiaccato la sua energia dintelletto, del resto confermata nella sua ultima intervista, data al nostro giornale pochi giorni fa per la penna di Tony Damascelli.
Appunto quellenergia aveva indotto Rino, dopo averne fatto un idolo e un caposcuola - fu, con Tony Dallara, il leader dei cosiddetti urlatori - a sopravvivere a quel successo effimero, senza mai deporre le armi. Sfumati, con gli anni 60, i trionfi sanremesi, le vittorie a Canzonissima, la fortuna di interpretazioni come Ritroviamoci, Libero, È mezzanotte e Quando vien la sera, scrittagli dal grande Carlo Alberto Rossi, eppoi le collaborazioni con Alain Barrière, Modugno, Marotta, Nino Taranto, Sentieri si ritrova confinato nel limbo degli ex. E ovviamente in bolletta, ché il vizio degli investimenti sbagliati è in lui radicato non meno del talento. E così sadatta, l«angelo rosso» già popolarissimo nelle Americhe e poi in Italia, a dissipare il proprio estro in piccoli locali, supplendo alla sfumata popolarità con la sua verve da smaliziato naïf. Finché a Genova, corrono gli anni 70, lAssociazione albergatori lo ingaggia per unestate di concerti. E lui si reinventa come artista délite: traduce Brel in genovese, scrive canzoni dinerme intensità, si presenta al pubblico vestito di nero come unicona rive gauche. Ritrovando, a cinquantanni, la voglia davventura che laveva sorretto da bambino, quando, figlio duna poverissima famiglia genovese, aveva cominciato a sbarcare il lunario cantando Puccini nei carrugi e nelle bettole angiportuali.
Avrebbe voluto diventare un grande tenore o, in alternativa, un famoso pittore, ma la miseria lo indusse a gettare i dischi di Gigli, gli spartiti e i pennelli per mettere su unorchestrina. Cantando nei night e negli alberghi, poi sulle navi, incontrò un armatore greco che lo portò in America: qui Rino imparò lo stile singhiozzante dei cantanti neri e un repertorio che spaziava tra italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, napoletano. Fu il primo cantante bianco a esibirsi ad Harlem e tornò a Genova ricchissimo, subito dilapidando il suo patrimonio nellacquisto dun albergo. Tornò a cantare, spopolò in Argentina, rientrò ricco in Italia e in breve si ridusse in miseria.
Nonostante i successi anche in patria, i film, le serate con Mina, Celentano, Gaber accomunati a lui dallessere chiamati urlatori senza esserlo. Ma va be, lui sta al gioco e per incrementare la propria fama inventa un curioso saltello, col quale conclude ogni sua canzone guadagnandosi la definizione di «cantante del saltino». Della quale va candidamente orgoglioso: «Hai visto, ha copiato da me», mi telefonò una mattina, dopo aver visto, a Sanremo, un rocker straniero concludere il proprio brano con un balzo scimmiesco.
Perché Rino era così: ingenuo come un bimbo, con lentusiasmo e lo stupore che oggi neppure linfanzia conosce più. E che facevano di lui il superstite dun mondo sommerso, determinandone, contemporaneamente, la simpatia contagiosa e le inevitabili sfortune.
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