Pechino - Alla fine della giornata, quando l'eco dell'ultimo petardo si sarà spenta, e il dragone avrà smesso di sputar fiamme dalle narici, nessuno se ne ricorderà più. I due presidenti - quello che un giorno sì e uno no intona un sermone sulla bellezza della democrazia e poi la esporta con la guerra, e il Grande Gatto di Marmo che in galera mette chi si permette di pensarla diversamente - si sorrideranno a denti stretti.
Ciascuno avrà detto la sua, come da copione. Il primo accusando il secondo delle solite soperchierie e manchevolezze in tema di libertà personali e religiose; il secondo rispondendogli per le rime, sottolineando che ciascuno a casa propria fa come gli pare, e che di prediche ne ha piene le tasche. Dopodiché il grande show olimpico potrà cominciare, mentre il business - la vera materia del contendere - andrà avanti serenamente, as usual.
A sottolinearne l'importanza (di fronte alla quale la storia dei diritti umani in Cina è una bazza di secondaria importanza, come sanno bene gli interessati) basta andare a dare un'occhiata alla nuovissima ambasciata americana, la più grande al mondo dopo quella di Bagdad, che George Bush inaugurerà personalmente oggi. Un compound di 23mila metri quadrati di vetro e travertino che a Pechino, dove il faraonico si coniuga con il napoleonico, fa la stessa figura del panfilo del sultano dell'Oman nel porto di Palermo. Il complesso, disegnato dal famoso architetto sinoamericano Ieon Ming Pei e dai suoi due figli, è costato 434 milioni di dollari e darà lavoro a 950 funzionari provenienti da 26 diverse «agenzie», marines e spioni dell'Fbi compresi. «Due impressionanti realtà - ha detto l'ambasciatore Usa a Pechino Clark Randt, rimirando l'immenso palazzo centrale ricoperto da una marezzatura di lastre di vetro trasparenti, traslucide, opache, che di notte rilucerà come una fiaccola - che testimoniano la crescita e l'importanza delle nostre relazioni bilaterali».
Ufficialmente, tuttavia, George Bush è sempre «preoccupato» per la situazione dei diritti umani in Cina. Non meno di lui, come diremo, lo è il presidente di turno della Ue, Nicholas Sarkozy, che ha trasmesso a Pechino una lista di detenuti politici. A Bush (ma è stato il classico discorso alla suocera perché la nuora intenda) ha risposto stizzito il portavoce del ministero degli Esteri Qin Gang, spiegandogli che Cina e Stati Uniti hanno idee divergenti su diritti umani e religiosi, ma che Pechino «si oppone in modo fermo a parole e atti che utilizzano questi argomenti per interferire negli affari interni di un altro Paese».
«Alla Cina - aveva detto Bush in Tailandia prima di imbarcarsi per la Cina - stiamo facendo presente che essere una potenza economica globale comporta anche il dovere di agire responsabilmente su questioni che vanno dall'energia all'ambiente». Preconizzando alla Cina un avvenire radioso, Bush aveva spiegato anche come deve essere, bontà sua, questo futuro. Certamente sarà popolato di giovani, dice il presidente americano, che «dopo aver assaporato la libertà di scambiare beni chiederanno anche quella di scambiare idee, specialmente su Internet libera da restrizioni». E non più imbrigliata, voleva dire, dalla «polizia postale» cinese che chiude i siti troppo spigliati e impone le sue regole draconiane.
Volenti o nolenti, tuttavia, i governanti cinesi dovranno arrendersi secondo Bush al vento della modernità, «anche se nel rispetto dei loro tempi, della loro storia e delle loro tradizioni».
Un'altra predica, come detto, viene da Nicholas Sarkozy, che a nome della Ue ha girato a Pechino una lista di detenuti politici che gli era stata consegnata dal gruppo dei Verdi al Parlamento europeo, guidato da Daniel Cohn-Bendit e Monica Frassoni. Ma non è il solo sgarbo che il presidente francese rivolge alla dirigenza comunista cinese. Un comunicato dell'Ump, il partito di Sarkozy, annuncia infatti che «la presenza di sua moglie Carla Bruni a una cerimonia con il Dalai Lama il 22 agosto e un incontro previsto prima della fine dell'anno sono il segno che per raggiungere la pace, il dialogo e il rispetto reciproco sono più importanti della provocazione e della violenza».
Al momento, non si registrano reazioni alla reprimenda europea.
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