Alberto Indelicato
Non era difficile prevedere che il problema iraniano, portato all'esame dell'organo esecutivo dell'Agenzia internazionale dell'energia atomica, vi si sarebbe arenato in una serie di rinvii. I tre Paesi europei, Gran Bretagna, Germania e Francia, che si erano assunti il compito di convincere Teheran a rinunciare ai suoi progetti di sviluppare potenzialità nucleari utilizzabili a scopo militare si sono scontrati prima con una doccia scozzese «alla nord-coreana» di negazioni, conferme, promesse e rotture, e alla fine con il franco e orgoglioso «noi tireremo diritto» del nuovo primo ministro Mahmoud Ahmadinejad. Limpasse a Vienna, sede dell'Agenzia, non dipende certo da quest'ultima. Lontana dalle vuote chiacchiere e dall'alluvionale produzione di inutili documenti che lasciano il tempo che trovano, essa è infatti uno degli organismi più seri del sistema delle Nazioni Unite sia per gli argomenti che tratta, sia per le competenze tecnico-scientifiche che caratterizzano il suo personale. Ma, una volta che questo ha svolto il suo lavoro di ricerca, di analisi e di controllo - come ha fatto anche in Iran - è il suo organo esecutivo che deve trarre le conclusioni. Si tratta di un «Consiglio dei governatori», formato dai rappresentanti di trentacinque Stati, eletti dall'Assemblea generale.
Formalmente non vi sono membri permanenti, né diritto di veto. In realtà il complicato regolamento fa sì che siano sempre presenti le cinque potenze atomiche militari «legittime» (Usa, Gran Bretagna, Russia, Cina, Francia). L'elevato numero dei membri dovrebbe far riflettere coloro che vorrebbero allargare il già ampio Consiglio di Sicurezza dell'Onu, perché esso non solo non è una garanzia di efficienza, ma al contrario finisce per paralizzare il funzionamento dell'Agenzia stessa. Infatti se non esiste il diritto di veto, c'è qualcosa di non meno micidiale: il consenso. Si tratta della conseguenza del «sacrosanto» dialogo, operazione taumaturgica che, secondo la retorica onusiana (e non solo) avrebbe la capacità di sciogliere tutti i nodi e di risolvere ogni contrasto. In realtà alla soluzione di una crisi viene sostituito spesso un compromesso soltanto verbale, approvato per l'appunto per consenso, vale a dire con l'accordo di tutti i membri. Se mancasse il consenso, se cioè anche uno dei membri dovesse essere contrario al compromesso proposto, esso non sarebbe approvato. In pratica ciò significa che ognuno dei trentacinque membri ha un tacito diritto di veto. È questa una garanzia sicura di impotenza e di inefficienza.
È quanto sta avvenendo nel caso iraniano. Ed è su questa macchinosa procedura che il governo di Teheran conta per rimandare alle calende greche la decisione dell'Aiea di sottoporre il caso al Consiglio di sicurezza, dove peraltro il suo esame incontrerebbe analoghi ostacoli. L'attuale crisi iraniana presenta gravi aspetti politici perché complica la già abbastanza esplosiva situazione medio-orientale, mettendo anzitutto a rischio la sicurezza di Israele. A che altro infatti dovrebbe servire l'arma nucleare di Teheran se non a minacciare l'odiato vicino? Non meno importante è il fatto che il caso pone ancora una volta in evidenza la debolezza delle istituzioni internazionali e la loro incapacità di affrontare le sfide ed i pericoli del XXI secolo.
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