Quando a scuola affrontiamo per la prima volta l'evoluzione umana, emerge fin dall'inizio il parametro più importante alla base dell'incremento delle qualità di una specie: l'ingrandimento del cervello. Sappiamo così che le forme australopitecine (primo passo verso la comparsa dell'uomo) vissute tre milioni di anni fa, possedevano un cervello di 450 centimetri cubi; che è andato ampliandosi fino alla venuta dell'Homo habilis, (640 cm cubi) e dell'Homo erectus (940 cm cubi). La fase successiva vide la comparsa della nostra specie, l'Homo sapiens arcaico che dopo millenni divenne sapiens sapiens (1.500 cm cubi), in concomitanza con la conquista dell'Europa e l'avvento delle forme cromagnonoidi. Nel Vecchio continente c'era anche l'Homo neanderthalensis, con un cervello altrettanto sviluppato e misure che in certi casi superavano i 1.600 cm cubi. Oggi, però, la sorpresa: i nostri cervelli stanno diventando sempre più piccoli. E dai 1.500 cm cubi dell'Uomo di Cro Magnon (vissuto 40mila anni fa), siamo arrivati ai 1.350 cm cubi di oggi. Lo stupore da parte degli scienziati è unanime, e alcuni di essi non possono fare a meno di porsi il quesito più imbarazzante: l'uomo sta diventando sempre più stupido?
David Geary lavora all'università del Missouri, in Usa. E benché non voglia parlare apertamente di regressione cognitiva, si riferisce all'ipotesi che gli uomini del passato dovessero essere più svegli di noi, per meglio fronteggiare le difficoltà dell'esistenza. Secondo Geary noi non abbiamo più la necessità di inventarci un riparo per la notte dall'oggi al domani, perché viviamo in case comode e riscaldate; e non ci serve adottare chissà quali strategie per catturare un cervo o un cinghiale, perché andiamo al supermercato e troviamo tutto ciò che ci serve. Tradotto significa che alcune aree neuronali che erano fondamentali millenni di anni fa, oggi potrebbero non esserlo più. E il cervello si starebbe pertanto evolvendo per eliminarle del tutto. Plausibile? Sì, ma fino a un certo punto.
Il quoziente intellettivo medio su scala mondiale è andato diminuendo di 7-10 punti da una decina di anni fa a questa parte; ma non sussistono tesi valide che possano imputare questo fenomeno a qualche aspetto fisiologico degenerativo. Anche se, qualche autore, ha fatto riferimento a un uso smodato di strumenti hi-tech (pc, tablet e telefonini) che lentamente starebbero atrofizzando il cervello.
Robin Morris è un neuropsicologo del King's College di Londra e ha una spiegazione: il Qi medio delle persone, in realtà, è in costante crescita, ma risulta più basso del normale perché si invecchia sempre di più; e siccome i test intellettivi provengono anche da quella fetta di popolazione che soffre di «working memory» (memoria da lavoro), strettamente legata alla memoria a breve termine, è facile cadere in contraddizione. Dunque, se è vera la disanima di Morris, come è possibile spiegare la relazione fra l'incremento dell'intelligenza e la diminuzione delle dimensioni del cervello?
Gli scienziati ritengono che non ci sia un'oggettiva corrispondenza fra grandezza del cervello e intelligenza; ma esiste la consapevolezza che per un buon funzionamento cerebrale sia necessaria un'adeguata corrispondenza fra i neuroni. In pratica, l'intelligenza non la fanno le dimensioni, ma le sinapsi (punto di incontro fra i neuroni) e le varie cellule che consentono la relazione fra un certo stimolo e la rielaborazione dello stesso. Michael W. Cole della Washington University a St. Louis, in Usa, parla di «connettività», sostenendo l'importanza del dialogo fra la corteccia prefrontale e le altre parti del cervello. Tanto più è spiccata, tanto più alta sarà l'intelligenza di un individuo. La corteccia prefrontale, pertanto, lavora come un direttore di orchestra che, coordinando tutti i suoi strumentisti, finisce per dare un senso alla melodia che si sta proponendo.
Un altro aspetto riguarda il subitaneo cambiamento delle abitudini comportamentali dell'uomo moderno. Rispetto ai nostri antenati, infatti, siamo diventati molto meno aggressivi. Non serve più esserlo, perché viviamo in contesti ambientali plasmati a nostra immagine, che non contemplano la necessità di aggredire fisicamente qualcuno. Si può infatti intuire che in passato, per sopravvivere, fosse necessario sapere imporsi con la forza, a discapito della diplomazia che avrebbe condannato la nostra specie all'estinzione. È la tesi avanzata da Ben Hare, un antropologo statunitense della Duke University Institute for brain sciences.
I suoi studi hanno messo in luce che gli animali domestici perdono parte delle loro aree cerebrali in base alla minore o maggiore relazione con l'uomo. Un animale aggressivo è tale solo se vive allo stato brado; vivendo a fianco dell'uomo e avendo tutto a disposizione, perde la sua aggressività che trova corrispondenza in un affusolamento del corpo, e appunto in un rimpicciolimento del cervello.
Secondo Hare, analogamente, la selezione naturale nell'uomo ha portato a una diminuzione delle attitudini aggressive, in favore di una maggiore capacità di cooperazione ed empatia, presupposti che non contemplano il numero di neuroni, bensì l'efficacia con cui essi comunicano. Difficile dire come potranno andare le cose in futuro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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