I punti chiave
L’universo degli sport americani è difficile da capire fino in fondo per chi non è nato e cresciuto in quella cultura estremamente particolare. Anche quando gli sport sono simili, il milieu culturale nel quale si svolgono è talmente diverso da quello europeo da dare origine ad infiniti equivoci e misunderstanding. Non è solo un problema linguistico, visto che il rapporto tra molti italiani e la lingua di Shakespeare è abbastanza conflittuale. La grammatica che circonda lo sport, il vocabolario, i riferimenti culturali di base sono del tutto diversi, tanto da risultare del tutto incomprensibili. Come fareste a spiegare la magia assoluta del barrilete cosmico di Diego Armando Maradona a chi non ha mai visto una partita di calcio? Riuscireste forse a far percepire l’irridente, abbacinante bellezza delle giocate di Johan Cruyiff a chi considera il soccer roba da femminucce? Il mondo dello sport americano è forse ancora più complicato da trasmettere, visto che si fonda su una mitologia condivisa, eventi storici che tutti ricordano, momenti unici, irripetibili.
Lo sport a stelle e strisce è estremamente vario, tale da contenere tutto e il contrario di tutto. Si va dalla infinita regular season del baseball, dove le partite si giocano quasi ogni giorno, diventando indistinguibili all’opposto assoluto, la stagione del football, dove ogni singola partita è un evento fondamentale. Quello che gli sportivi alle nostre latitudini faticano a comprendere è come nel football gli scontri siano così equilibrati da consentire ad una sola azione di decidere il destino di un’intera stagione. Talvolta, invece, una giocata è talmente importante da cambiare il panorama dello sport per oltre un decennio. Grazie all’inimitabile talento dei giornalisti sportivi d’oltreoceano, queste giocate spesso si guadagnano soprannomi memorabili, entrando a far parte dell’immaginario collettivo. Forse la più famosa azione del football moderno è conosciuta come “the catch” e tutti in America sanno immediatamente di cosa si sta parlando.
Cosa l’ha resa così speciale? Il fatto che portò una franchigia fino a quel momento ridicola a dominare lo sport per un decennio, trasformò un quarterback sull’orlo del licenziamento in una leggenda assoluta e, allo stesso tempo, segnò l’inizio della fine della squadra che aveva dominato lo sport fino a quel momento. Questa è la storia di come un lancio della disperazione rese i San Francisco 49ers la squadra simbolo degli anni ‘80 e Joe Montana uno dei più grandi giocatori di sempre.
Una giocata leggendaria
Per raccontare la storia della ricezione più famosa della storia del football dobbiamo tornare indietro nel tempo, 41 anni fa, il 10 gennaio 1982. Al venerabile Candlestick Park di San Francisco, proprio sulla famosa baia, con il Golden Gate sullo sfondo, a contendersi l’accesso al Super Bowl nell’NFC Championship game c’erano i padroni di casa, i 49ers ed i loro acerrimi rivali, i Dallas Cowboys, superpotenza del football che, bene o male, si era guadagnata il soprannome di “America’s Team”. Le cose, ancora una volta, sembravano mettersi male per i Niners, franchigia con alle spalle una lunga striscia di cocenti delusioni proprio contro i texani. Il genio offensivo del giovane ed ambizioso Matt Walsh si era infranto ancora una volta con le arti oscure di uno degli allenatori più grandi di sempre, Tom Landry. Dopo una partita estremamente serrata, il quarto finale aveva visto una spallata da parte di Dallas, un uno-due micidiale composto da un facile field goal di Septien e un touchdown di Cosbie su un passaggio millimetrico di Danny White.
A meno di un minuto dalla fine, i Niners sono sotto 27 a 21, con l’attacco in crisi contro la solida difesa dei Cowboys. Il giovane quarterback Joe Montana è con le spalle al muro: terzo down, tre yards in piena red zone. L’allenatore di San Francisco Matt Walsh sa bene che ha a disposizione solo una giocata: segnare un touchdown e sperare che la sua difesa riesca ad evitare che i Cowboys guadagnino abbastanza territorio per calciare un field goal. Il maestro della West Coast Offense chiama lo schema, uno dei suoi preferiti e lo comunica al suo quarterback. Change Left Slot, Sprint Right Option, lo stesso movimento che nel primo quarto aveva consentito a Freddie Solomon di segnare un touchdown. Montana non è convintissimo ma non può che obbedire. Appena riceve il pallone, l’ex QB di Notre Dame si rende immediatamente conto che la difesa di Landry ha mangiato la foglia: Solomon è coperto, tocca passare alla seconda opzione, una corsa sul lato destro. Pochi passi e tre difensori di Dallas sono sulle sue tracce, pronti a placcarlo o spingerlo fuori dal campo. Montana rimane calmo, guarda in fondo alla end zone, intuisce la corsa dell’amico Dwight Clark. Vede anche il difensore Walls che lo marca stretto ma non si perde d’animo. Con una finta fa saltare a vuoto “Too Tall” Ed Jones e lancia quello che a molti sembra un lancio senza speranza, profondo, troppo alto, di quelli che un quarterback fa quando vuole evitare un intercetto.
Incredibilmente Clark salta altissimo, afferra il pallone con la punta delle dita e riesce a mettere entrambi i piedi nella end zone. Touchdown San Francisco. Con il calcio addizionale, i Niners sono avanti 28-27. Candlestick Park esplode, con il pubblico della Bay Area che inizia a credere davvero di poter battere gli odiati Cowboys. Montana e Walsh il loro l’hanno fatto ma ora tocca alla difesa fermare l’attacco di Dallas. 51 secondi non sono molti ma non darebbe la prima volta che Tom Landry rovina le cose sul più bello. Primo snap, passaggio lungo per Drew Pearson che porta i Cowboys a poche yards dalla distanza buona per il field goal della vittoria. Il pubblico di San Francisco trattiene il fiato: non esiste, non possiamo perdere ancora, non contro di loro. Walsh ordina un blitz a Pillers riesce a placcare Danny White prima che trovi un ricevitore libero, facendogli anche perdere il pallone. Stuckey si getta sulla palla, facendo esplodere il pubblico di casa. La maledizione è finita, i 49ers hanno superato finalmente la loro bestia nera e approdano alla terra promessa, il Super Bowl. Non lo sanno ancora, ma da quel momento nessuno si sarebbe sognato più di prendere in giro la franchigia californiana. Era appena nata una delle dynasties più grandi della storia del football.
Le radici dell'odio
Per capire l’incontenibile gioia del pubblico californiano bisogna ripercorrere la storia della rivalità che divide da mezzo secolo queste due franchigie che non potrebbero essere più diverse. Sebbene non siano nella stessa division, Cowboys e 49ers non si sono mai amate, dando origine ad una delle inimicizie più sentite nello sport a stelle e strisce. Si può dire senza timore di essere smentiti che parlare della storia del football professionistico senza menzionare gli scontri tra Dallas e San Francisco è impossibile. A giudicare dal numero di Super Bowl vinti sembra che queste due squadre siano più o meno sullo stesso livello, visto che ne hanno cinque a testa ma nel 1982 le cose erano molto diverse. Quella che sarebbe diventata la partita più comune nella storia della postseason NFL aveva solo portato immense delusioni ai fedelissimi della Red and Gold Brigade. Per qualche ragione Tom Landry sembrava sempre in grado di frustrare i tentativi dei Niners di mettere in dubbio il dominio dei Cowboys sulla NFC, tanto da diventare una vera e propria psicosi nella Bay Area. Gli incroci dell’era Dick Nolan erano stati disastrosi: tre sconfitte consecutive che avevano bloccato sul nascere la spinta per togliere ai 49ers l’etichetta di perdenti simpatici. Ottime stagioni, roster competitivi, tante speranze che si infrangevano regolarmente sugli alfieri del Lone Star State.
Dopo le due nette sconfitte nell’NFC Championship del 1970 e ‘71, lo scontro nel Divisional Round della stagione del ‘72 fu ancora più doloroso. Il pubblico di Candlestick Park fu costretto a vedere Roger Staubach, il grande quarterback di Dallas, mettere una rimonta storica, ribaltando il 28-13 in un solo quarto, mettendo un field goal e due touchdown. La psicosi Cowboys avrebbe interrotto la crescita di San Francisco, che avrebbe avuto bisogno di un nuovo head coach e di dieci anni per tornare ad essere competitiva. La nuova proprietà aveva scommesso tutto su un allenatore dalle idee rivoluzionarie e su un quarterback che non aveva convinto tutti al college, guadagnandosi però la reputazione di un maestro delle rimonte. Per diventare davvero grandi, questi due futuri giganti dello sport avevano bisogno di superare il blocco psicologico dei Niners, quella sensazione che, non importa cosa si fossero inventati, Landry “aveva il loro numero” e gli avrebbe sempre rovinato i piani. Quel lancio disperato, quella ricezione epica riuscirono nel miracolo, sbloccando il potenziale di una squadra che avrebbe dominato lo sport per più di un decennio.
Il regno dell’uomo col cappello, l’allenatore che negli anni ‘70 aveva reso i Cowboys la squadra più popolare d’America, non sarebbe più stato lo stesso. Fu come un passaggio di testimone, tanto da eclissare la stella di Dallas per un intero decennio. Ci sarebbe voluto un altro allenatore iconico, il vulcanico Jimmy Johnson per riportare i Cowboys di Troy Aikman in cima alla montagna. Per arrivarci, ancora una volta, avrebbero dovuto superare i Niners, in tre incroci memorabili dal 1993 al 1995. Joe Montana e Matt Walsh erano stati sostituiti da Steve Young e George Seifert ma le battaglie tra San Francisco e Dallas erano gli scontri più attesi dell’intera stagione. Dopo due vittorie per i Cowboys e una per i Niners, la rivalità era ormai trascesa in odio vero e proprio. Gli alti e bassi del football, inclusa la crisi ventennale dei texani, non hanno fatto niente per rendere meno virulenta l’inimicizia non solo tra le tifoserie ma anche tra gli stessi giocatori.
A chi crede che tutti in America vadano alle partite per mangiare hot dogs e bere birre che costano quanto una bottiglia di Chianti, consiglio di andare a vedere una partita tra queste due franchigie. Il wrestling non c’entra niente, non sono solo polemiche fatte per avere le prime pagine: Niners e Cowboys si odiano sul serio. Negli ultimi due anni, dopo un quarto di secolo di crisi, si sono incrociate nella post-season, dando vita a due partite non memorabili ma che hanno garantito ai californiani di portarsi avanti nel conto delle vittorie. La psicosi ora è passata fermamente dalla parte dei texani, le cui speranze di rinascita sembrano infrangersi sempre sull’undici di Kyle Shanahan. E pensare che tutto è nato da una giocata disperata. Gli dei dello sport hanno un gran senso dell’umorismo.
Quando Joe divenne Cool
Per sapere cosa successe dopo quella famosa “catch” basta leggere gli annali del football professionistico. La West Coast Offense di Matt Walsh, quella che aveva messo a punto nel corso di vent’anni tra San Diego e Stanford, sarebbe diventata praticamente ubiqua nella NFL, contribuendo non poco ai successi di un’altra combinazione head coach/quarterback da hall of fame, quella composta dal burbero Bill Belichick e dal più grande di sempre, Tom Brady, con la maglia dei New England Patriots. Joseph Clifford Montana Junior, invece, sarebbe diventato l’atleta italo-americano più vincente di sempre, talmente famoso da guadagnarsi migliaia di copertine e un posto d’onore nel cuore dei tifosi della Bay Area. Dopo quattro trionfi al Super Bowl, tre con Walsh, il ragazzo di New Eagle, Pennsylvania è una celebrità assoluta anche trent’anni dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, quando il fisico martoriato dai maltrattamenti delle ruvide difese della NFL anni ‘80 lo costrinse ad alzare bandiera bianca. Nelle 15 stagioni passate tra San Francisco e Kansas City aveva messo numeri pazzeschi, talmente mostruosi da pensare che non sarebbero mai stati battuti.
C’è chi dice che, se fosse stato costretto a giocare con le regole del passato, Tom Brady non sarebbe mai riuscito a giocare così a lungo, che Joe Montana rimane comunque il più grande quarterback della storia. La questione sembra assurda ma è ancora in grado di appassionare i tifosi a stelle e strisce. Ieri un certo Lawrence Taylor, leggenda dei New York Giants, si è aggiunto alla folla di ex campioni del passato che continuano a considerare Montana il più grande di sempre. Per quanto abbia fatto nelle stagioni successive, molti nella Bay Area quel 10 gennaio 1982 erano quasi pronti a gettare la spugna, convinti che Montana non fosse adatto al gioco di Walsh, che per far fare il salto di qualità ai Niners servisse qualcuno più alto, più strutturato. Se non era riuscito a guadagnarsi un posto da titolare a Notre Dame, perché mai avrebbe dovuto farlo proprio da loro? Se quella famosa giocata fosse andata storta, se Clark non fosse riuscito ad allungarsi così tanto, molti avrebbero chiesto a gran voce al vulcanico proprietario dei Niners, Ed DeBartolo, di cacciare a pedate sia Walsh che Montana. Senza quella giocata, la storica franchigia nata dall’intuizione di un altro italo-americano, il visionario Tony Morabito, forse non avrebbe mai vinto un solo anello, rimanendo per sempre nel limbo, incapace di emergere dall’ombra dei Dallas Cowboys.
Fu invece quella giocata a convincere tutti gli amanti del football che l’ex rincalzo di Notre Dame non era solo bravo nel finale di partita, uno da mettere in campo quando sei sotto, il “comeback kid” che aveva fatto miracoli in Indiana. No, Joe Montana era capace di rimanere calmo in ogni condizione, anche quando le difese avversarie sembravano decise a punirlo fisicamente, fargli male, rompergli qualche osso. Uno dei tanti documentari dedicati alla carriera del giocatore simbolo dell’età dell’oro del football NFL si chiama “Cool under pressure”, freddo quando è sotto pressione. Fu proprio “the catch” a far dimenticare a tutti i tifosi di San Francisco i dubbi, le stagioni difficili, il lungo rodaggio necessario per metabolizzare il football del futuro, quello sognato da Matt Walsh. Da quel momento, Joseph Clifford Montana Junior sarebbe sempre stato conosciuto come Joe Cool, nel senso di impassibile ma anche inevitabile, una sentenza per gli avversari.
Quando era in forma, riusciva sempre a trovare il modo di fartela pagare, anche se gliene facevi di tutti i colori. Joe vive ancora a San Francisco, nel quartiere di Marina, a poca distanza da North Beach, lo storico quartiere italiano della metropoli californiana. Con buona pace di Joe Burrow, da queste parti di Joe Cool ce n’è solo uno ed il suo numero è il 16, in bella vista là, in alto, a Santa Clara, nel nuovo stadio che ha preso il posto di Candlestick Park.
Appena entri ad attenderti c’è una coppia di statue: un tizio con le mani protese verso il cielo e un altro che lo guarda, sicuro che quel pallone sarebbe arrivato dove doveva arrivare. Nessuno nella Bay Area dimenticherà mai quella giocata ed i suoi protagonisti. Il football da quel giorno non è stato più lo stesso. Non c’è niente da fare, cose del genere succedono solo in America.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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