Una delle cose più difficili da spiegare ad un appassionato di sport europeo è il concetto di franchise. Nello sport americano non si parla di squadra o club o società ma di “franchigia”, parola che in italiano ha un significato del tutto diverso. Una franchise è un’organizzazione con un logo, colori, quella che nel lingo mediatico si chiama intellectual property ma non è legata ad una città o ad uno stadio. La cosa crea non pochi i problemi ai tifosi europei: come si fa a parlare di Manchester United senza l’Old Trafford? Riuscireste ad immaginare il Real Madrid senza il Santiago Bernabeu? In America, invece, le cose possono andare in maniera molto diversa. Gli stessi Dallas Cowboys, quelli che si vantano ancora di essere America’s Team, la più ricca e popolare organizzazione sportiva al mondo, hanno cambiato tre stadi nella loro esistenza, tutti, però, nel Metroplex, l’area metropolitana di Dallas-Fort Worth. Le franchises sono delle aziende che pensano principalmente ad una cosa: fare soldi.
Se ritengono di poter fare più soldi altrove, salutano e se ne vanno. I Raiders, ad esempio, hanno cambiato città quattro volte prima di approdare, chissà quanto a lungo, nel parco giochi nel deserto chiamato Las Vegas. Una volta, però, la situazione precipitò talmente in fretta da lasciare il mondo di stucco. Letteralmente dalla sera alla mattina, i Colts si trasferirono da Baltimora ad Indianapolis, gettando nella disperazione i tifosi. Ecco perché questa settimana “Solo in America” vi porta proprio nella città del Maryland per raccontarvi come un proprietario ambizioso caricò baracca e burattini e trasferì la sua società a mille chilometri di distanza in poche ore.
Tutto in una notte
Il leggendario trasferimento dei Colts è una delle storie più pazzesche dello sport a stelle e strisce, semplicemente perché avvenne all’oscuro dei media, un fulmine a ciel sereno che lasciò tifosi ed esperti di stucco. La storia, raccontata in un lungo ed interessante articolo del giornale più seguito dell’Indiana, l’Indianapolis Star, fa fermamente parte della leggenda della Nfl. Se fuori dagli Stati Uniti è una curiosità, nelle due città interessate è ancora fonte di infinite discussioni dopo quasi 40 anni. Nessuno aveva mai nemmeno considerato la possibilità che l’amatissima squadra di Baltimora, i Colts dell’immenso Johnny Unitas, quello che molti considerano ancora il più grande quarterback di sempre, se ne sarebbe semplicemente andata. Le cose, invece, avvennero alla velocità della luce, senza che nessuno si rendesse conto di quel che stava succedendo. Il 28 marzo 1984 Rick Russell stava pranzando all’Athletic Club di Indianapolis quando fu chiamato dal Ceo della sua compagnia. Il suo lavoro era organizzare traslochi su grande scala ma rimase basito quando il numero uno della Mayflower gli chiese di spostare di peso un’intera franchise Nfl senza che i media se ne accorgessero.
Affrontò il tutto con precisione ed efficienza militare, inviando quattordici enormi camion rimorchio ad Owings Mills, centro di allenamento dei Colts, senza dire agli autisti dove sarebbero andati. Ci volle qualche tempo prima che la notizia arrivasse alle amministrazioni delle due città coinvolte: il sindaco di Indianapolis Hudnut, il “cattivo” della storia, intervistato nel 2004, non ammise alcuna colpa. Baltimora si era tirata la zappa sul piede da sola. A Baltimora, ovviamente, la pensavano in maniera del tutto diversa. Molti dei protagonisti sono passati a miglior vita, come l’ideatore della mossa a sorpresa, il proprietario dei Colts Bob Irsay ma la questione è ancora tanto sentita da essere vissuta come una tragedia nella città del Maryland. Diciamo che non l’hanno presa benissimo. Ad oggi, ogni volta che la squadra di Indianapolis va a giocare a Baltimora, sul tabellone viene indicato solo il nome della città. I Colts, per quanto li riguarda, rimangono ancora cosa loro.
Una questione di soldi e politica
Ovviamente c’erano voluti mesi se non anni prima di arrivare al fatidico trasloco, con discussioni che erano iniziate già nel 1983. Il sindaco di Indianapolis aveva messo assieme un’offerta indecente per Irsay, promettendogli la luna pur di battere la concorrenza di Phoenix ed altre città molto interessate ad irretire il proprietario dei Colts. L’asso nella manica della città dell’Indiana? Avrebbero pagato per il trasloco di tasca loro, assicurando che la notizia non sarebbe uscita in nessun caso. Il momento decisivo avvenne diversi mesi prima del trasloco, il 23 febbraio, quando il proprietario arrivò in città per dare un’occhiata all’Hoosier Dome. I lavori di ristrutturazione non erano ancora finiti, ma Irsay fu impressionato dall’impianto. Guardandosi in giro, notò come i colori dello stadio fossero gli stessi dei Colts, argento e blu scuro i seggiolini, bianco il tetto. Irsay lo prese come un segno del destino.
Mark Herrmann, giocatore dei Colts, ricorda come i rapporti tra Irsay e la città di Baltimora fossero ai minimi storici. I tifosi ne avevano avuto abbastanza e disertavano lo stadio in massa. Giocare in uno stadio mezzo vuoto fece capire a tutti che le cose sarebbero finite male. A Baltimora si viveva delle glorie del passato, i tempi di Unitas, i trionfi di un’era ormai finita. I Colts di oggi non riuscivano ad entusiasmare un pubblico un po’ viziato. Baltimora era una città operaia ed i giocatori vivevano negli stessi quartieri dei tifosi, facendo altri lavori nella off-season: gestivano bar, vendevano auto usate, li conoscevano tutti. Il Memorial Stadium cadeva a pezzi ma il vero problema era che, dei 52860 posti, i Colts riuscivano a riempirne poco più della metà. Tutti si domandavano cosa avrebbe fatto Irsay ma ben poche voci uscivano dal quartier generale dei Colts. In realtà le discussioni erano molto avanzate: Pete Ward, ora Coo dei Colts, ricorda come nel gennaio del 1984 il trasferimento a Phoenix sembrava cosa fatta. Poi si parlò seriamente di Memphis, per poi spostare l’interesse ad Indianapolis. Nessuno però pensava che Irsay facesse sul serio: “Pensavamo che fosse un modo per strappare più soldi alla città di Baltimora”.
I viaggi di Irsay nelle varie città furono ricevuti malissimo nel Maryland, tanto da spingere il Congresso dello stato ad una mossa inconsulta. Il 27 marzo la State Legislature avviò il processo per espropriare i Colts per “motivi di pubblica utilità”. Fu la goccia che fece traboccare il vaso e convinse definitivamente la proprietà ad accettare l’offerta di Indianapolis. Un dirigente dei Colts usa una metafora colorita: “Ci avevano messo la pistola alla tempia, alzando il cane. Non saremmo stati lì a vedere se avevano caricato proiettili veri o a salve”. Il sindaco Schaefer, intervistato nel 2004, dice che non avevano alcuna intenzione di espropriare alcunché: “Se ne era parlato ma non l’avrei mai permesso. Mi fidavo di Irsay ma mi prese in giro. Mi diceva di continuo che non se ne sarebbe andato, continuavamo a negoziare anche quando aveva già chiuso con Indianapolis”.
Caricare tutto di nascosto
Il sindaco di Baltimora non era l’unico a non avere idea dei piani della proprietà dei Colts. Jon Scott, che all’epoca si occupava della gestione degli equipaggiamenti, lo venne a sapere la mattina del 28 marzo. Fu stupefatto quando venne a sapere che non sarebbero andati a Phoenix ma ad Indianapolis. Le istruzioni sembravano prese da un libro di Ian Fleming: “Prendi più scatole che puoi ma non dire niente a nessuno, né ai colleghi né agli amici, nemmeno ai tuoi genitori. Riuscii a trovare un bel po’ di scatole, abbastanza da riempire il mio furgoncino. Chiudemmo le porte del centro allenamento e impacchettammo tutto, senza fermarci un secondo”.
Il responsabile della Mayflower rimase di stucco quando il suo capo gli spiegò che i Colts si sarebbero trasferiti quella stessa sera. Fu una giornata davvero infernale: presero il jet della famiglia Irsay ma atterrarono a Washington, per non essere beccati dai media. Nonostante tutto, alcuni giornalisti li intercettarono all’aeroporto di Dulles ma riuscirono a seminarli facendo finta di entrare in un albergo vicino. Ci volle del tempo per trovare i trenta facchini necessari per l’operazione ma tutto avrebbe dovuto funzionare in maniera perfetta. Un responsabile dei Colts fu informato del tutto nel tardo pomeriggio: sarebbe stato lui a gestire la situazione a partire dalle 10 di sera. I camion sarebbero dovuti partire prima che facesse giorno, senza se e senza ma.
Il responsabile della Mayflower fu costretto a richiamare alla base camion lontani fino a 500 chilometri, visto che ne servivano almeno 14. Gli autisti protestarono non poco quando rifiutarono di dirgli dove erano diretti: furono chiamati agli uffici di Alexandria, in Virginia e dirottati uno alla volta verso la sede dei Colts, per non dare troppo nell’occhio. Il primo arrivò alle 7 di sera, dopo il tramonto, il resto alla spicciolata, visto che non c’era spazio nel parcheggio per tutti. Un paio d’ore dopo la stampa locale se ne accorse ed iniziò a mandare reporter e fotografi. Vista l’ora, però, molti seppero della cosa solo il mattino dopo, quando i camion erano già in viaggio.
Il primo camion a partire fu quello con gli archivi e la contabilità: avevano paura che la polizia sequestrasse tutto, visto che si stava ancora discutendo l’esproprio. Allungarono il tragitto di parecchio pur di uscire prima possibile dal Maryland: fu un azzardo ma funzionò. Quella sera si vide di tutto: arrivò un autobus con 40 motociclisti della famigerata gang degli Hell’s Angels. Quando il responsabile dei Colts se li trovò davanti, capì che erano stati assoldati per caricare i camion. Venivano da Washington e gli avevano detto che si trattava di un trasloco di una sede diplomatica, cosa che, in effetti, avviene molto in fretta e sempre di notte. Non sapevano dove si trovavano, visto che l’autobus aveva i vetri scuri.
Quella notte nevicava, rendendo il tutto ancora più surreale. Uno alla volta i camion si avviarono verso Indianapolis, seguiti dalle auto cariche fino al limite di alcuni dipendenti dei Colts. Molti vivevano vicino all’ufficio ed erano single: le famiglie, ovviamente, ci misero un po’ di più per impacchettare tutto. Alcuni lavorarono fino alle quattro di mattina, quando l’ultimo camion lasciò il Maryland. Presero tutti strade diverse, per evitare di formare una fila indiana. Secondo le istruzioni ricevute guidarono un centinaio di miglia, abbastanza per lasciare lo stato, si presero qualche ora per riposare e, la mattina dopo, continuarono il viaggio.
Ripartire da zero
Il quarterback Herrmann ricorda come avesse visto i camion in televisione, mentre viaggiavano per Indianapolis. La cosa lo riempì di gioia: “ero cresciuto da quelle parti, a Carmel ed a Baltimora avevo pochi amici. Era stata una stagione da dimenticare. Non ho niente contro alla città ma le cose stavano andando di male in peggio. Il trasferimento era la cosa migliore che potesse capitarci. Avevamo una città che non solo ci voleva ma che era al settimo cielo. C’era un’elettricità contagiosa, tutti erano contenti di vederci arrivare. A Baltimora ci tolleravano a malapena”. Alle 8.30 del mattino, gli impiegati dei Colts arrivarono all’ufficio come al solito, guardandosi stralunati intorno. Nessuno aveva avvertito nemmeno loro: poco dopo si tenne una riunione nel quale ognuno di loro venne a sapere se avrebbe dovuto trasferirsi nella nuova sede o cercarsi un altro lavoro. Un metodo brutale ma efficace, senza spazio per sentimentalismi. Nel frattempo, ad Indianapolis, si era scatenato l’inferno. Telecamere erano arrivate da tutto il paese, seguendo ogni movimento dei Colts, dalla scuola elementare dove avevano scaricato buona parte della roba fino all’albergo, dove alcuni reporter provarono a seguirli fino in camera. Un dirigente disse di sentirsi come i Beatles nel 1964, quando i Fab Four causarono scene al limite dell’isteria collettiva.
La conferenza stampa del sindaco di Indianapolis avvenne più tardi, quando i camion erano già arrivati in città, parcheggiati nella sede della Mayflower su Michigan Avenue. Neanche 24 ore ed i Colts erano in una nuova città. Venerdì, quando iniziarono a scaricare il materiale alla Fall Creek Elementary, c’erano elicotteri a seguirli ed il sindaco Hudnut ad aspettarli, seguito da un’orda famelica di giornalisti. La situazione per i dipendenti dei Colts era tutt’altro che ideale. Uno di loro ricorda come “dovemmo ripartire da zero a parte i giocatori e gli allenatori. Non avevamo un telefono, non sapevamo l’indirizzo, ci mancava la carta intestata, niente fotocopiatrice, nessuno che rispondesse e, soprattutto, un centinaio di scatoloni con roba buttata alla rinfusa. Prima di pensare alla successiva stagione, dovemmo sistemare tutto. Fu un incubo, avresti potuto lavorare 24 ore al giorno per cinque mesi e non ce l’avresti fatta lo stesso”.
Un ottimo affare?
Dal punto di vista finanziario il trasferimento fu un ottimo affare per entrambe le parti. I Colts avrebbero pagato una cifra ridicola, 250000 dollari, per l’affitto dello stadio, spartendosi gli incassi con la città sia per i biglietti che per le vendite all’interno dell’impianto. La città diede una mano alla proprietà per pagare gli interessi del debito ma, comunque, finì col guadagnarci: secondo l’ex vicesindaco, infatti, Indianapolis ebbe circa 2 milioni di profitti fin dal primo anno. Baltimora provò a fare causa alla città rivale ma il 10 dicembre 1985 fu raggiunto un accordo extragiudiziale: condizione fondamentale, restituire i memorabilia di Johnny Unitas.
Nel 2012, il sindaco Hudnut ricorda come quella mossa ambiziosa fu fondamentale per far crescere la città: “Volevamo lasciare il segno, migliorare l’economia e, per così dire, far diventare Indianapolis una città di serie A. Molti criticano gli accordi con le squadre di football ma, nel nostro caso, fu una scelta indovinata. La città è molto più viva ed il centro storico si è rinnovato tantissimo da allora”. Regalare il trasloco ai Colts funzionò anche per la Mayflower, anche se molti temettero il peggio. Gli agenti della compagnia a Baltimora erano furibondi, temevano che nessuno li avrebbe più chiamati. La risposta della direzione? Non esiste cattiva pubblicità. Un anno dopo, quando fecero i conti si resero conto che quei camion col logo della ditta in televisione erano stati una mano santa: il fatturato era aumentato del 20%.
A Baltimora, ovviamente, la pensano in maniera diametralmente opposta. Il fatto che alla fine in città siano arrivati i Ravens e che, da allora, abbiano vinto due Super Bowl non conta niente: i Colts erano la loro squadra e malediranno fino alla fine dei loro giorni il mefistofelico Bob Irsay. C’è chi parla della proverbiale “tempesta perfetta”, di una serie di coincidenze che resero possibile un trasferimento così repentino ma, anche se i Colts ultimamente non se la passano bene, i 39 anni passati ad Indianapolis sono stati tutto sommato felici. Herrmann è tornato a casa sua ed ora lavora per una radio dell’Indiana. Ogni tanto pensa ai tifosi di Baltimora, come facesse male vedere il logo che avevano tifato per una vita, l’iconico ferro di cavallo, in un’altra città. “Generazioni sono cresciute tifando per i Colts, il rapporto era profondo ed ora non possono che pensare ‘mi avete rubato la squadra’. Da un lato è abbastanza patetico l’odio per la città di Indianapolis ma, in fondo, vuol dire che ci tenevano davvero”. L’Indiana era un posto dove il basket regnava sovrano ma la gente si appassionò subito ai Colts. Il fatto di aver vinto un Super Bowl, di aver avuto un grandissimo come Peyton Manning e lo sfortunato talento di Andrew Luck ha costruito una tifoseria appassionata come poche altre. Quarant’anni dopo, l’anonima Indianapolis, famosa solo per il Brickyard ed il famoso circuito, è una città importante, da serie A. Non era affatto scontato.
Una città unita dalle memorie
Lo choc a Baltimora fu enorme, tanto da lasciare la città di stucco. Le menti di tutti i tifosi andarono indietro nel tempo, a quei giorni felici, quando i Colts di Johnny Unitas battevano i Giants in casa loro ai supplementari, facendo esplodere di gioia un’intera città. Molti protestarono la decisione della proprietà, minacciando ritorsioni ma pochi ebbero la costanza di una vera e propria istituzione cittadina, la Baltimore Colts Marching Band. Solitamente queste bande musicali sono roba da college ma esistono anche nel football professionistico. Quando si ritrovarono senza squadra, i volontari della band rifiutarono di sciogliersi, agendo come una sorta di governo in esilio, perorando la causa del football a Baltimora negli stadi delle squadre vicine. Quando i 160 tra suonatori e cheerleaders intonavano la storica fight song dei vecchi Colts, molti tifosi attempati non riuscivano a trattenere le lacrime.
Il trasferimento della franchise fu un segno dei tempi, un pezzo della vecchia America che se ne andava, travolto dalle logiche del business e dal progresso. La band, nata nel 1947, quando i primi Colts giocavano nella All-America Conference, non si era arresa nemmeno nel 1951, quando la società portò i libri in tribunale. Quando due anni dopo in città arrivarono i Dallas Texans, diventarono i Colts proprio perché la band, seguitissima, rifiutava di cambiare nome. Per fortuna gli strumenti e le uniformi non si trovavano nel quartiere generale dei Colts quando arrivarono i camion. Da allora venivano chiamati ogni tanto dalle squadre della East Coast per uno spettacolo all’intervallo, in segno di solidarietà verso gli antichi rivali.
La traversata nel deserto, immortalata da un ottimo documentario della serie della ESPN 30 for 30, durò undici anni e 30 spettacoli durante le partite della Nfl, prima che Baltimora avesse di nuovo una squadra di football. La band lavorò anche con l’ex governatore del Maryland Schaefer per finanziare la costruzione di un nuovo stadio per il football e, alla fine, ebbero la meglio. Nel 1996 i Cleveland Browns si trasferirono in città, diventando i Baltimore Ravens: da allora, per la prima volta, la band decise che era tempo di cambiare nome. I Marching Ravens sono una delle due bande ancora in attività nella Nfl, ancora seguitissimi in città. Da allora hanno suonato alla Casa Bianca, nella parata del Thanksgiving a New York e, ovviamente, per le parate della vittoria dopo i Super Bowl vinti dai Ravens.
Negli anni passati senza squadra, a corteggiare i ricchissimi proprietari delle franchises scontente, Baltimora guardava continuamente indietro, al glorioso passato, a quegli anni irripetibili nei quali dominava il mondo del football. C’è chi se l’è presa con il big business, contro una Nfl troppo preoccupata degli incassi, che ha dimenticato i tifosi, lo spirito, la lealtà per le città che hanno reso grandi le squadre. Nello sport professionistico i profitti regnano sovrani, è semplicemente la realtà delle cose. Per alcuni Brooklyn non è più stata la stessa dopo che i Dodgers se ne sono andati, vi ho raccontato di come Minneapolis continui a rimpiangere i Lakers e come Oakland pianga lacrime amare ripensando ai suoi Raiders.
Le memorie, per fortuna, sono sempre lì, immutabili, per chi ha avuto la fortuna di viverle. Anche quelle di quella notte fredda e tempestosa quando una città si svegliò senza la sua squadra di football.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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