E ci mancavano petrolio e dollaro a complicarci giorni già abbastanza turbati dalla cronaca nera e dal governo del povero Prodi. Eppure, bevendo il cappuccino, la gente al bar predilige parlarne. Sfoga forse un po' delle sue molte ansie, con questo suo ammaestramento economico del prossimo. Cosicché al bancone prima arriva qualcuno che erudisce gli altri dando la colpa del rialzo della benzina solo a cinesi e indiani. Né manca l'ecologista che predica il risparmio come salvezza universale, e neanche il comunista che dà la colpa ai petrolieri amici di Bush, con allusioni a Bin Laden. E c'è pure l'anima positiva, anziana, a dire che l'euro rivalutandosi almeno ci protegge. Ma riecco il più pessimista che ingoia un caffè macchiato, dice che l'euro forte ci rovina, e il mutuo da pagare gli si aggrava. È la varietà delle ansie e delle questioni economiche, forse non facili da guarire, ma che si può tentare di spiegare.
Va chiarito anzitutto che è la speculazione che sta gonfiando i prezzi del greggio. Nelle torri di vetro dove si lucra su quelle scommesse che è in uso chiamare oggi derivati si comprano contratti di acquisto del petrolio. E si fa a gara per rialzarne il prezzo così da potere lucrare rivendendoli. I tanti in perdita con la crisi dei mutui, a Wall Street, Hong Kong, Londra ora si rifanno spingendo verso i 100 dollari il costo di un barile. Prezzo che il difetto d'offerta non giustificherebbe. Stavolta i cinesi per il caro petrolio hanno la colpa minore. Ad aver amplificato il guaio è la Federal Reserve. Essa ha fatto calare i tassi di interesse, per non aggravare la crisi dei mutui. Ma così ha dato pure liquidità alla speculazione. Del resto una logica non troppo diversa spiega la svalutazione del dollaro. Calando i tassi, gli americani hanno assecondato la sua perdita di valore. Una svalutazione peraltro tanto seria da convincere persino le frivole modelle dei défilé, a farsi pagare solo in euro. Ma tra il dollaro debole e le banche da salvare, gli Stati Uniti hanno scelto le banche. E può dirsi perciò che la Federal Reserve e le banche di New York abbiano girato all'estero i loro guai. Gli europei si ritrovano con un euro sopravalutato; i cinesi con un'enormità di dollari svalutati nelle loro riserve e a maggior rischio di inflazione.
Ma il fatto è che a dirigere l'orchestra, nei tempi belli come in quelli cupi, sono sempre gli Stati Uniti. Greenspan ha nutrito di dollari prima il boom di internet e poi quello immobiliare. E il suo successore Bernanke, malgrado le promesse iniziali, lo si ritrova ad applicare la stessa dieta alla crisi dei mutui. Non ha scelto, come la Bank of England, una politica monetaria e dei tassi più severa. Quella appunto che la dottrina classica delle crisi finanziarie consiglia, per evitare che l'eccesso di moneta non contagi altri mercati con la speculazione. Com'è invece avvenuto lasciando agli speculatori dollari bastanti per tentare di rifarsi delle perdite sui mutui con le speculazioni sulle valute e il petrolio. Ed è questo il prezzo che tutti stiamo pagando perché ancora l'economia americana regga meglio di quanto previsto. Del resto Bruxelles come la Bce si sono mostrate inette anche solo a proporsi direttori di orchestra. Sarebbe occorsa negli anni passati una politica monetaria più severa. Oggi c'è poco da fare. E l'unico dei governanti europei che dimostra una qualche lucidità è come al solito Sarkozy. A Washington si è riavvicinato agli americani in Irak ma li ha pur sempre ammoniti «gli Stati Uniti non hanno bisogno di un dollaro troppo debole». Anche perché tra le davvero rare certezze degli economisti, dai tempi di Nixon, c'è la seguente: un dollaro in discesa implica prezzi di oro e petrolio in salita. Altalena pericolosa, dalla quale si può cadere malamente, come avvenne con le crisi petrolifere.
Geminello Alvi
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