Nessuno voleva pubblicarlo. Il giudizio di Elio Vittorini fu perentorio: «Francamente, non abbiamo mai pubblicato un libro tanto brutto e arcaico, presuntuoso e inattuale». L'autore di quel libro, Elémire Zolla, veniva da un'ottima famiglia torinese: il padre, Venanzio, era artista di vaglia di quadri fuori moda; la madre, Blanche Smith, originaria del Kent, era morta nell'estate del 1951. Zolla, tubercolotico, viveva da isolato, flâneur tra gli inferi delle proprie immaginazioni, «vagando a lungo attraverso le strade miserelle di Torino, sempre in cerca d'un tratto di vita memorabile»: leggeva il Tao Te Ching e «la vita del Buddha», preferiva Alice nel paese delle meraviglie ai romanzi di Dickens, «così carichi di odiosa compassione». Misticheggiava, nella città demoniaca per antonomasia - che custodisce la Sindone e forse serba, nei suoi sotterranei, il Graal -, tra fondi di caffè, gatti variopinti, ricorrenze che conferivano al caos una stola regale, d'argento.
Infine, il romanzo d'esordio di Zolla, Minuetto all'inferno, vide luce. Vittorini precisò le proprie rimostranze in una quarta intrisa di livore. «Non so, francamente, che cosa valga questo romanzo satanico di Elémire Zolla», scrive il duce della narrativa Einaudi. In poche righe, Vittorini confessava di non capire un autore come Thomas Mann e in genere «un intero filone di letteratura... in cui si avverte, deliberata, l'azione speculativa dell'intelletto». Affibbiava a Pavese un aggettivo ctonio: «torbido». Non era raro che Vittorini spiattellasse le proprie ubbie in pubblico: nel risvolto de La malora aveva scritto che Beppe Fenoglio andava installato tra «i provinciali del naturalismo», che contava quanto un Remiglio Zena. D'altra parte, vent'anni prima, ragazzo in cerca di fama, sul Bargello, aveva elogiato il genio lirico di Benito Mussolini, «un poeta di cui la storia letteraria, senza alcun dubbio, terrà conto».
Nella mitica collana diretta da Vittorini, «I gettoni», erano stati pubblicati Dylan Thomas e Jorge Luis Borges, Italo Calvino, Giovanni Testori e Anna Maria Ortese; insieme a Zolla uscirono autori dimenticati: Marcello Venturi, Rolando Viani, Angelo Ponsi. Con il suo romanzo, era stato stampato Dopo i leoni, bizzarro libro di Antonio Guerra detto Tonino, futuro collaboratore di Fellini, Antonioni, Tarkovskij. Ad ogni modo, il romanzo ebbe degno riscontro: vinse lo Strega «opera prima» nel 1956, l'anno in cui lo Strega andava alle Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani.
Letto oggi, Minuetto all'inferno fa un doppio effetto. Il primo è abbacinante: scanzonata è la bravura di Zolla nel creare la vita, pur in vitro. I capitoli iniziali - quintessenziali al romanzo - che raccontano la storia incrociata dei protagonisti, Lotario e Giulia, sono un esercizio di gioia stilistica. Ritaglio un esempio: «A diciott'anni Lotario, a furia di ritrarsi nel guscio della sua annoiata e schifata solitudine aveva assunto un abito particolare: camminava con un certo sussiego, come una statua improvvisamente snodata, come cosciente di ogni moto dei muscoli, spegnendo le risate rade in un condiscendente sorriso». A pagina 64 penetriamo nella radura dell'amore lesbico tra Giulia, «slanciata e di nobile sguardo», Artemide dalla «strana crudeltà», e Lena. Zolla, micidiale demiurgo di temi astrali, alterna una sdoppiata striatura linguistica: più marziale, solare, quando scrive di Lotario, più morbida, lunata, a odor di partoriente quando si dedica ai capitoli di Giulia. La figura della santa abietta, della mistica che si dà alla dissipazione del corpo per distillarne l'oro della rivelazione sarà sviluppato in un libro mitico di Zolla: l'antologia dei Mistici, uscita da Garzanti nel 1963, poi da Rizzoli, ora architrave editoriale Adelphi.
Il secondo effetto di Minuetto all'inferno: lo straniamento, l'effimero del grottesco. Dal capitolo nove il romanzo muta forma e lingua. A prendere possesso del libro, da quel momento, sono il Demonio, «il folle e malvagissimo signore che tenta di dimenticare il suo spleen creando sempre nuovi... frangenti disperati o non del tutto disperati all'umano formicaio», e i suoi. La sardana infernale vorrebbe simulare, forse, il Bulgakov del Maestro e Margherita; l'esito è un cataclisma dai neri umori, con personaggi avviliti a burattini; il clima del libro si disfa, si fa improbabile, prende la forma del ghigno. Vien da pensare, leggendo, che la peggiore delle condanne sia una vita umana troppo umana, dedita al lavoro, alla famiglia, ai bassi vizi di tutti i giorni. A galleggiare sull'acquitrino testuale, due moniti. Il primo è mistico: se Iddio, il «dittatore», vuole che gli uomini facciano figli, così da legarsi alla terra «come alberi», Satana ha obbiettivi opposti, preferibili: «voglio che adorino i gatti, imparando da essi a separarsi dal mondo». Il secondo è un monito morale, reale: diffidate della parola «fiducia»: «È una parola che detesto: la usano i governi bacati, gli avvocati incapaci, le amanti infedeli». Con formula analoga, tempo dopo, Cristina Campo, futura compagna di Zolla, dirà che «speranza è una parola che mi terrorizza».
Ripetutamente scomparso dal mercato editoriale, Minuetto all'inferno, romanzo-sfinge di Zolla, è risorto vent'anni fa per Aragno, ritorna oggi - con impeccabile saggio di Grazia Marchianò - per Cliquot (dal 6 marzo, pagg. 290, euro 20). Secondo la consuetudine narrativa degli ultimi decenni - libri puliti, imburrati di buone opere o di perversioni per il sofà, pari a una saponetta, tutti trama, scritti al vaglio di Google Traduttore - un romanzo come questo è impossibile. Al lettore comune, dall'intelletto con le braghe corte, parrà ostico.
Certo del suo
ardimentoso estro, Zolla scrisse un altro romanzo. Cecilia o la disattenzione fu stampato da Garzanti: un romanzo così raffinato, tanto affettato, da essere degno di rapido oblio. Era il 1961: da allora Zolla si diede ad altro.
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