Antifascismo e democrazia non sono sinonimi (anzi)

Nicola Rao nel saggio "Il tempo delle chiavi" ricostruisce l'uccisione di Sergio Ramelli e il clima di odio e violenza legittimati dall'ideologia

Antifascismo e democrazia non sono sinonimi (anzi)

Tutti conoscono il celebre aneddoto di Flaiano: «Appena un mese fa parlavo con Mino Maccari. Che si fa? Niente, si aspetta Godot? No, si aspetta la rivoluzione. Chi dovrebbe farla, i fascisti? I fascisti gli ho ricordato sono una trascurabile maggioranza. Maccari ha precisato: il fascismo si divide in due parti: il fascismo propriamente detto e l'antifascismo».

Naturalmente si corre sempre il rischio, nel citare questo formidabile appunto satirico, di scadere in un suo cattivo uso; quasi di voler, surrettiziamente, rendere equivalente il fascismo e coloro che giustamente lo hanno combattuto e vinto. Se così fosse sarebbe esecrabile, ma non è così.

No, non si tratta di riabilitare il fascismo e le sue colpe, ma di smascherare il carattere intollerante e violento, che talvolta si annida nell'intoccabile nemico del Male Assoluto. Anche Stalin è stato un formidabile antifascista, e, si parva licet, lo furono gli assassini della Volante Rossa e delle Br. L'antifascismo, cioè, non coincide con la democrazia, anzi può essere la bandiera dei suoi distruttori. È un termine ambiguo, che andrebbe trattato storicamente con molta cura, ovvero pazientemente analizzato rispetto ai suoi molteplici e contraddittori impieghi.

Negli anni Settanta in Italia, per esempio, ci fu un antifascismo intollerante e criminale, che ostentava apertamente il proprio intento: uccidere un fascista, si diceva, non è un reato. Questa barbarie fece diverse vittime, e contribuì drammaticamente ad alimentare una scia di vendette. Per certi versi alimentò la giustificazione della lotta armata e la falsa percezione di una guerra civile a bassa intensità da dover condurre contro uno Stato definito stragista nella sua stessa natura, benché ci fossero governi eletti in base a regolari elezioni e con una opposizione comunista che superava il 35% dei consensi. Nonostante ciò si utilizzava il richiamo emotivo e irrazionale al pericolo fascista, spingendo alla falsa credenza che dovesse essere combattuto nelle piazze, nelle fabbriche, nelle scuole anche a colpi di spranghe e di chiavi inglesi.

Si definiva, quello di allora, antifascismo militante, si organizzava in squadre e con propri arsenali di mazze, bastoni, e infine la scorta di chiavi inglesi, le famigerate Hazet 35. Era innanzitutto presente a Milano, facendosi forte della necessità di combattere l'estremismo ordinovista, sanbabilino, e anche missino. Naturalmente le idee e la prassi di gruppi neonazisti, oppure la violenza del teppismo della gioventù con gli occhiali a goccia e gli stivaletti a punta, e infine tutto il nostalgismo per Salò e altro ciarpame non rientravano nella cultura democratica e repubblicana.

Andavano punite e messe alla porta. Le responsabilità di quest'area politica nelle stragi e nella guerriglia urbana, però doveva essere colpita nel perimetro invalicabile della legalità costituzionale. Al contrario, in quello stesso contesto si cercò di trascinare la società civile in un altro tipo di ring, dove i picchiatori della sinistra extraparlamentare innescarono una escalation del disordine e della paura.

La vicenda della morte di Sergio Ramelli è esemplare. Per anni la memoria storica di quest'orribile esecuzione è stata omessa e mistificata. Da un lato messa a tacere perché, in fondo, si trattava di un fascista, dall'altro trasformando la morte di un giovane ragazzo con idee di destra, certamente non condivisibili sul piano della visione democratica, in un martire.

La logica del martirio è devastante, perché sacralizza la morte violenta e conduce alla faida. Un fenomeno che attraversò gli opposti estremismi.

Adesso sono passati, però, cinquant'anni e si può ripensare alla memoria storica repubblicana in modo più laico, deponendo i pregiudizi ideologici, riconoscendo dove e perché fu assalita la convivenza civile. Diventerà così possibile ricordare come l'antifascismo militante di parecchi gruppi di estrema sinistra, spesso coperti da pregiudizi ereditati da una visione mitopoietica della Resistenza, ha sicuramente fatto parte di quell'onda pericolosa.

Nicola Rao ha avuto il merito con un agile e suggestivo libro intitolato Il tempo delle chiavi (pubblicato per i tipi di Piemme) di restituirci una cronaca lucida e imparziale del clima di aggressione, intolleranza e complicità che portò a una morte ingiusta, quella di Ramelli, un ragazzo di idee missine e anticomuniste, che finisce sotto i colpi impietosi delle chiavi inglesi.

Finalmente, senza tentennamenti e senza ombre faziose, si possono ascoltare le voci dei protagonisti di quel clima e leggere i documenti dell'epoca. Il racconto di Rao è serrato, aderente alla materia, e non ha bisogno di artificio per spiegarci cosa è accaduto. Basta, per esempio, grazie al suo libro, leggere il verbale del Collegio dei Docenti che si tenne nella scuola di Ramelli dopo le minacce e le violenze che lo studente subì al momento della richiesta di un nulla osta di trasferimento presso altro istituto.

Ramelli era stato costretto ad andarsene dalla sua scuola perché già nel mirino dello squadrismo rosso e perché già colpito da ripetuti atti intimidatori. Non basterà per risparmiargli la sorte brutale. Ma soffermiamoci su quanto è riportato in quel verbale.

Durante il collegio dei docenti si pronunciano solo incerte e blande condanne. Non solo, a queste, e pure sdegnate, rispondono le assurde contestazioni dei rappresentanti degli studenti. Infine ci sono le raggelanti difese della persecuzione del giovane persino da parte di alcuni professori che si richiamano alla necessità della pratica dell'antifascismo nelle scuole. Non si tratta per costoro di stigmatizzare gli argomenti anticomunisti che Ramelli aveva usato in suo tema, ma di ostracizzare e colpire il ragazzo con tutta la ferocia e l'infamia possibile. Insomma, la morte di Ramelli nasce già qui, in questo clima di odio e di legittimazione della violenza che passa sotto l'insegna politicamente corretta dell'antifascismo.

Il libro di Rao è un lungo racconto, che non si limita alla vicenda Ramelli, ma illumina bene il contesto di fanatismo cieco che fu presente in quella stagione.

Lo dobbiamo anche intendere come un contributo utile ad aprire un serio dibattito sul temine antifascismo. Bisogna prima o poi decostruirne il significato, perché innanzitutto non si debba rimanere più ostaggi di un pericoloso equivoco.

Il fascismo è nemico della democrazia, ma la democrazia non è fondata dall'antifascismo.

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