
Ero strattonato dall'elettricità, appena messo piede nel ventre di Roma. Proprio nell'ex Mattatoio di Testaccio dove hanno squartato animali a milioni. Dove il sangue ha pisciato come nelle battaglie per l'Impero. È stato paradossale e luminoso, sì, che nello scannatoio leggendario per ghigni di macellai e trippe, due pittori che ricordano Romolo e Remo (ma non lo sono), hanno acceso di stupore con due mostre saldate nei tribolari restaurati (Progettare il Caos di Felice Levini; e Centuria di Giuseppe Salvatori) la capitale, che da plaga periferica miracolosamente è rinata Giovine. Levini in realtà è il Samurai; Salvatori il Cantore armonioso.
Felice Levini si è forgiato sulla riva destra della Senna, divorando le Avanguardie con tutti i Dadaismi e i Surrealismi del caso. Gustandosi da oggi, per chi l'avesse perso quando non si doveva perdere, l'ignobile Celine citato in un suo quadro, a proposito della morte a ciclo ininterrotto degli animali che è metafora della morte ininterrotta degli umani: «Nemmeno capaci di pensare la morte che siamo».
Il Levini che appare nei suoi dipinti alla stregua di Napoleone, ma non per imitarlo quanto per guardarlo da dietro la maschera; il Levini consumato nelle sue eterne quattro ossa per cinquantaquattro chilogrammi, sulla riva sempre destra però poi del Tevere, a Roma, certo, dove si sporca in criminologia quotidiana, rimanendo benintesi un uomo integralmente morale come suggerisce il narciso fecondo Luigi Ontani. Ecco che giganteggia Il Gladiatore, lasciato solo dagli altri Gladiatori in una mostra rubata a Napoli. Primeggia Ajace, nel mentre la colonna sonora del Samurai va come in Arancia Meccanica, con innesti vocianti del Duce e di Hitler in questa impressionante topografia pittorica e sottilmente provocatoria, intemerata. Del resto il Samurai ha smesso la carne e si è votato ai mille linguaggi di una pittura che oltre a Progettare, stabilisce confini per abbatterli: confini visivi, temporali, terrestri. La scultura bianchissima degli Stivali delle sette leghe è anche la avanzata napoleonica e nazista in Russia e la ritirata. È Malaparte e il vestiario de I duellanti, il magistrale film di Ridley Scott tratto da Il duello di Conrad.
Mi struggo di energia non posso raccontare tutto!
Felice Levini non è nessuno dei due duellanti (né il ridicolo Harvey Keytel, nella sua goffa onorabilità di buonapartista che cela invidia e senso di inadeguatezza; né l'aristocratico Keith Carradine, costretto suo malgrado ad accettare l'ennesimo lancio di sfida del rivale). Felice Levini è invece l'arma che di volta in volta viente scelta nella reiterata tenzone. Ciclopici emergono Nerone, Caligola. Si erge il suo Autoritratto feroce, con faccia di leopardo, corpo di leopardo, tutto leopardato mi dice ora al telefono che ci ricorda ancora come abbia stritolato la carne delle rive destre e aleggi nella tanto cara metafisica come un vecchio bambino illuminato di sé.
Giuseppe Salvatori mi piace chiamarlo il garibaldino di Mentana, pur avendo abiurato alla carnalità e dunque alle rive maledette. Egli appartiene infatti alla riva sinistra del Tevere, dove giace armonia, Rinascimento e luce. Salvatori in Centuria inquadra una legione di volti tondi su legno dipinti di profilo alla stregua dei molti ritratti di Piero della Francesca. Sembra in guerra. Ovvio. Ma la sua è una contesa epica che si annoda alla rigogliosa vegetazione che intrise gli innamorati di d'Annunzio ne La pioggia del pineto. É pittura che ha musica. Se Levini ha scuoiato la sua carnalità, Giuseppe Salvatori Canta per sempre l'amore del canto. In sostanza la contemplazione romantica nell'ottica giapponese del vero fremito dei sensi. La pittura di Salvatori mai come adesso si era vista così maestosa. Non solo è Cantore arminioso, bensì Cantore epico. È uno dei pochi artisti che ci è dato conoscere a sorreggere con raffinata e primordiale forza i suoi quadri con una cultura che affonda nella raggiante Grecia, nelle acque del Mediterraneo, negli ori degli etruschi e bizantini. Salvatori entra e esce da Gerusalemme. Dipinge Oro rapace per librare le ali degli Arcangeli. Dipinge Pranzo mistico per banchettare con morti quieti avvolti in un drappo nero che è solo drappo di nero lucentissimo: raro. E quando torna alle armi, con La resa delle armi, i moschetti con baionetta in canna sono eretti a mo' di bambù, ma pensati distesi su un morbido tappeto.
Non c'è opera che Salvatori non si sia narrato. C'è l'Odissea, c'è l'Eneide. Ma la poesia, e la poesia italiana da Petrarca ai giovani poeti degli anni Ottanta, con i quali ha vissuto e fatto cenacolo fanno inconscio collettivo per la sua vitalità. Quando appare il torero Pablo, non solo riappare la luce di Siviglia con «il cielo così alto da far pensare che quello italiano sia sentimentale», come chiosava Hemingway, ma con il damerino nell'arena ecco le parole di Majacovskij. E quando è la volta dell'altro torero, Nazareno, steso a terra, non sono le corna del toro ma il nume tutelare di Goya a distenderlo. Sapendo che il toro è eterno, il torero no. Il toro è eterno perché spetta alla caccia di Enea, spetta ai boschi sacri, spetta a un mondo sottaciuto e sprofondato ma impossibile da rimuovere.
Giuseppe Salvatori è Maestro incisore di bottega e giostraio di pitture che non hanno ombre. Dico: non hanno ombre nell'anima. Romolo e Remo, che Romolo e Remo non sono, rappresentano oggi la pittura nuova. A Roma sono nati due grandi pittori. Sembra che oggi, negli ex laghi di nervi e sterco, si rappresenta un evento che gli annoiati di mostre neppure sospettavano.
Levini e Salvatori sono stati compagni di viaggio e compagni di strada dei più celebrati artisti di San Lorenzo. Eppure, anche se gli astri di Pizzi Cannella, di Giuseppe Gallo, di Marco Tirelli, di Gianni Dessì e altri continuano nella loro corsa ormai storica, ecco, appunto, i Nostri del Mattatoio sono stupefacenti adesso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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