Da Nomellini a Soffici. Tra postmacchiaioli e strapaesani, la mostra a Forte dei Marmi

A Forte dei Marmi, in attesa dell’inaugurazione del “Museo Quarto Platano” di Villa Bertelli, va in scena una affascinante e nostalgica mostra da Nomellini a Soffici e De Chirico

Da Nomellini a Soffici. Tra postmacchiaioli e strapaesani, la mostra a Forte dei Marmi

Forte dei Marmi (LU) - È il trionfo del colore e della sua abbagliante lucentezza, dei paesaggi metafisici, delle nature morte, ma anche delle vie sdrucciolevoli, delle case di campagna con cipressi e oliveti… e a mano a mano che si attraversano le sale, si scrutano i volti delle figure anche più ignote e secondarie, si ammira il cielo e si penetra lentamente nell'universo interiore dell'artista, laddove in perenne contrasto convivono la noia e il dolore, la gioia e le delusioni, la sofferenza e gli esili barlumi di speranza, la fantasia e le tenebre, quindi la vita e la morte, apparentemente distanti ma in realtà inseparabili in ogni attimo della nostra esistenza.

Nella loro pittura provinciale - perché l’Italia è provincia più che nazione ed ogni luogo seppur maledetto dagli uomini è stato come benedetto da Dio - si possono incontrare i capolavori di Nomellini, Soffici, Rosai, Natali, De Chirico… non tutti, ma gran parte di essi maledettamente toscani nel loro modo di essere geni sregolati, incompresi, insolenti, crudeli, ironici e scostanti. E ragione l’ebbe Curzio Malaparte quando scrisse a pag. 26 del suo celebre “Maledetti toscani”: “E maggior fortuna sarebbe, se in Italia ci fossero più toscani e meno italiani”. Gente schietta, da pane al pane e vino al vino, ma tanto libera che prese quasi alla lettera quella vecchia frase longanesiana che “a mancare non è la libertà ma gli uomini liberi”.

Questi irrequieti e talentuosi figli della terra di Dante e Machiavelli, rimasero sempre legati al proprio paese, alle proprie radici, alla propria e intrinseca cultura strapaesana, di “selvaggi” e galantuomini di campagna, che solo la Toscana riesce ancora oggi a preservare nella fiumana di una globalizzazione sempre più invasiva e distruttiva.

Ed è un viaggio senza tempo la mostra curata da Elisabetta Matteucci con il supporto del presidente della Fondazione Villa Bertelli Ermindo Tucci con l’intento di trasmettere un’altra immagine di Forte dei Marmi.

La località balneare tra le più lussuose al mondo, nacque come meta e ritrovo di artisti, letterati, poeti, scultori, mecenati, giornalisti e ricchi borghesi contraddistinti da savoir-faire, signorilità nei modi e nell’abbigliamento. Intorno al Caffè Roma al Quarto Platano si potevano incontrare Pea, Gentile, Soffici, De Robertis, Montale, Viani, ma anche Longanesi, giovanissimo, Malaparte che amoreggiava con Virginia Agnelli, madre di Gianni, nonché i tanti lavoratori del marmo e dei polvirifici limitrofi, usurati nelle mani e nel volto dalle più atroci fatiche. Ben lontani saranno i tempi dei russi e dei “cafonauti”, pronti ad annientare questa perla scavata ai piedi delle Apuane e bagnata ai suoi piedi del mar Tirreno.

I monti circostanti e il mare, il sapore di salmastro, le barche in legno abbandonate a riva, i pescatori di arselle amatissimi da Carrà, Maccari, Viani, Nomellini, Catarsini, Calderini, Dazzi, Carena, Cecchi etc… chi più assiduamente, chi meno, fecero tutti parte di quel grande universo, di quella naturale e spontanea fucina di libero pensiero e insegnamento che fu appunto il Quarto Platano.

“La mostra”, dice Elisabetta Matteucci, “ha il compito di documentare un periodo meno noto rispetto ai percorsi canonici dell’arte a cui siamo abituati: dalla fine dell’800 al ‘900 inoltrato. Possiamo prendere come termine temporale iniziale Francesco Gioli che raffigura la spiaggia di Castiglioncello per chiudere con una natura morta del periodo barocco di Giorgio De Chirico del 1961”.

Il tentativo ambizioso di questa collezione privata, le cui opere sono state accuratamente selezionate con metodo scientifico e filologico, è quello di estendere la ricerca e il viaggio tra luci (tante), ombre (poche) e suggestioni, dal Risorgimento fino alla prima metà del ‘900. Pertanto, si ha il piacere di incontrare la graziosa e bellissima “Ciociara” di Plinio Nomellini, “Vele al sole” e “Paesaggio collinare con fiume” di Mario Puccini, definito “il Van Gogh livornese”, “Libecciata all’Ardenza” di Renato Natali ma anche “Le ricamatrici” di Lodovico Tommasi. L’elemento che caratterizza questi pittori (postmacchiaioli) è il colore, utilizzato in modo avvolgente ed estremamente affascinante che sancisce la rottura con il canonico disegno, cardine portante del magistero accademico toscano. E che aprì anche un importante dibattito con Giovanni Fattori, esponente di primo piano dei macchiaioli ma soprattutto maestro di tanti talentuosi allievi come Nomellini, Ghiglia etc… la sua influenza si estese anche ad Amedeo Modigliani.

Una delle opere più apprezzate anche per il significato storico, è il dipinto del 1907, “La signora Ojetti nel roseto” di Oscar Ghiglia. Lei, moglie di uno dei più grandi critici, giornalisti e scrittori italiani si concede un rigenerante e gradevole riposo nel roseto che domina la scena. Ojetti, eccezionale scopritore di talenti - leggenda vuole che mise una buona ma soprattutto autorevole parola per un ragazzo toscano che tanto amava entrare al “Corriere della Sera”: Indro Montanelli - permise a Ghiglia, genio irregolare nonché poverissimo, di beneficiare del suo mecenatismo e poi di conoscere Gustavo Sforni, un giovane appassionato e ricco che acquisterà molte sue opere consentendogli di vivere più che dignitosamente.

Dai paesaggi al bindolo di Puccini fino agli scorci livornesi del Natali, la natura e la realtà quotidiana della gente comune prendono sempre più forma e volume per trionfare con Ottone Rosai - “Via Toscanella”, “Albero in fiore”, “Paesaggio” e quindi con il “Fiaccheraio” - e Ardengo Soffici presente con due bellissime ovali di natura morta, un tempo appartenenti alla collezione Vallecchi - gran protagonista della stagione vociana - e con “Tramonto d’inverno. Il Concone”.

Sono proprio questi due artisti (senza dimenticare de Pisis, de Chirico e Savinio), legati alla corrente strapaesana, che ebbe in Firenze la sua città e in

Toscana la sua patria dell’anima, a chiudere un percorso ricco di storia e suggestioni nella consapevolezza degli organizzatori che fra poche settimane il Quarto Platano tornerà a rivivere lì dove tutto o quasi ebbe inizio.

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