P ochi giorni prima di morire nel febbraio 2005, Arthur Miller confessava a unamica, «quando mi sentivo deluso o tradito dalla vita, avevo pur sempre la mia scrittura». Una dichiarazione particolarmente toccante se si pensa che gli ultimi quarantanni della vita del grande scrittore americano, ossia dopo i successi dei suoi drammi presto diventati dei classici quali Erano tutti miei figli, Il Crogiuolo, Morte di un commesso viaggiatore, Uno sguardo dal ponte, e il penoso divorzio dalla seconda moglie Marilyn Monroe, sono stati costellati di amarezze, di critiche e di sferzanti attacchi al suo nuovo lavoro, che lottò per vedere allestito nel suo paese. Per poi immancabilmente subire il disprezzo e il sarcasmo di una critica feroce che giudicava le sue nuove pièces delle prediche tediose e mal scritte: Miller, aveva deciso il «teatro spaventato di Broadway» come egli stesso lo definiva, era un relitto del periodo postbellico, fermo alle battaglie ideologiche del passato, e completamente estraneo al teatro moderno. Noel Coward decretava Dopo la caduta (1964) - in cui lautore cercava di analizzare il suo rapporto con Marilyn Monroe e al tempo stesso trattava i temi dei campi di concentramento nazisti e delle persecuzini politiche maccartiste - un lavoro adolescenziale, di cattivo gusto se non addirittura volgare, il prodotto di una mente mediocre. Mentre Susan Sontag esprimeva la sua indignazione per «la sconcertante impertinenza dellautore a mettere sullo stesso livello problemi personali e problemi pubblici».
Erano le sue istanze moralistiche a irritare la critica e il pubblico degli Stati Uniti, che lo accusavano di atteggiarsi a grande pensatore, «lonesto Abe Lincoln delle lettere americane che pontifica dallalto per curare lanima malata della repubblica». Ormai in America il suo lavoro non avrebbe più riscosso la minima approvazione, non solo si sparava a zero sul nuovo, ma ogni occasione era buona per denigrare il vecchio. Per uno scrittore che si sentiva profondamente americano fu un dolore difficile da elaborare. Fino alla morte fu bersaglio prediletto tanto dalla destra che dalla sinistra, ma non si diede mai per vinto, persistendo nella scrittura fino allultimo.
In Europa era unaltra faccenda, le sue commedie erano allestite ovunque e accolte con entusiasmo, non ultimo in Inghilterra, dove il pubblico era abituato ad accettare il teatro come arena di discussione dei problemi politici e sociali. Attori e registi applaudivano il suo sforzo di dare un senso a un Ventesimo secolo pieno di orrori e ai paradossi delle sue proprie esperienze, affascinati sempre dai suoi tentativi di elaborare drammaticamente il suo vissuto e i suoi pensieri, la sua ebraicità problematica e sempre presente, ladesione al comunismo, le depressioni, i tradimenti. «I miei drammi sono la mia autobiografia, ammetteva, non scrivo pièces politiche per dibattere problemi specifici, mi interessano gli eventi della vita per la loro influenza sugli individui
il mio lavoro tratta dellindividuo visto, spero, in una totalità di cui la società è una parte».
Tutto questo illustra il secondo volume delleccellente e illuminante biografia di Christopher Bigsby Arthur Miller 1962-2005 (Londra, Edizioni Weidenfeld & Nicolson, pagg. 624, sterline 30) in cui troviamo tutte le virtù del primo, Arthur Miller 1915-1962 uscito nel 2008, che terminava con il divorzio da Marilyn Monroe e il matrimonio con Inge Morath, la fotografa intelligente e sensibile della Magnum, giá amante di Cartier-Bresson. Per trentanni amico e ammiratore di Miller, Bigsby è ora il suo studioso più scrupoloso, professore per gli Studi americani allUniversità dellEast Anglia e direttore dellArthur Miller Centre of American Studies ha avuto accesso esclusivo a una mole di taccuini e scritti inediti dai quail emerge il ritratto di un uomo che per sua ammissione ha scartato il 90 per cento di quello che ha scritto. La sua apparente sicurezza in pubblico tradiva in realtà lunghi momenti di depressione e di dubbio. Sensibilità estrema, «ci sono momenti in cui uno sente il peso dellintero mondo sulle spalle», confessò Miller una volta.
Osservatore attento e sagace interprete della sua opera, il biografo ne subisce tutto il fascino non senza mantenere una visione oggettiva, analizzando e mettendo in contesto tanto le critiche dei detrattori quanto gli intenti drammatici dellautore.
Questa seconda parte racconta il crescente attivismo politico di Miller, come eloquente critico della politica estera americana da Lyndon Johnson a George W. Bush, come presidente dellInternational PEN Club nella lotta per la libertà degli scrittori dissidenti in paesi come la Cina, la Russia, la Cecoslovacchia, la Turchia. Racconta anche del lungo e felice matrimonio con Inge Morath, austriaca di origine, che laiutò ad affrontare il problema per lui inaffrontabile dellolocausto.
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