Attilio Bertolucci, poesia a fuoco lento che scalda il cuore e sforna emozioni

Paolo Lagazzi ricorda le estati trascorse a Casarola, il regno del grande autore

Attilio Bertolucci, poesia a fuoco lento che scalda il cuore e sforna emozioni

Il padre, Bernardo, proveniva da una famiglia di allevatori di cavalli, venivano dalla Maremma. A Casarola, nella casa avita, odisseica, un'Itaca nell'Appennino parmense, Attilio Bertolucci presiedeva su uomini e cose, su ombre e bestie, con celeste severità. «Nonostante la sua concretezza era a suo modo imprendibile, e dicendo questo alludo al fondo mercuriale del suo spirito, ai suoi andirivieni fra naturalezza e malizia», mi dice Paolo Lagazzi. Nella Brihadaranyaka Upanishad si dice che il cavallo è il cosmo: «il sole è il suo occhio, il vento il suo respiro, il fuoco la sua bocca, l'anno il suo corpo». Non occorre credere al fato per sfatare la trama dei segni, i singulti dell'angelo. In una delle poesie più note, più nitide, Torrente nella raccolta d'esordio, Sirio, pubblicata nel 1929, diciottenne Bertolucci scrive, «Mi sento stanco, felice/ come una nuvola o un albero bagnato». Amava l'opera di Verdi e il jazz, Attilio Bertolucci; leggeva Walt Whitman e William Wordsworth. Amico di Cesare Zavattini, guardava i film di Chaplin e di Fritz Lang. Portava ampi cappelli.

A suo modo, con pazienza contadina cioè, con l'estro di chi conosce le stagioni, di chi sa che tutto muore per risorgere, ancora e ancora, che le cose sono indimenticabili perché, infine, vane Attilio Bertolucci è il poeta che più di tutti ha segnato la cultura italiana del secolo. Per Guanda, dalla fine degli anni Trenta, dirige la mitica collana «La Fenice»; sarà consulente per Garzanti; collabora su Paragone, la rivista di Roberto Longhi. Per l'Eni di Mattei inventa, di fatto, la rivista aziendale Il gatto selvatico, coinvolgendo Caproni, Bassani, Comisso, pubblicando Proust e Joyce. Ha tradotto Hemingway e Thomas Hardy. Aveva chiacchierato con Pier Paolo Pasolini, a Chia, due settimane prima della sua morte: erano amici da decenni, «Lui, così indifferente alla tavola e ai cibi, volle farci gustare certi vini che gli erano stati inviati dal Friuli».

Sapeva animare il fuoco, sapeva guidarlo arte connaturata agli sciamani, ai negromanti. Ne scrive Paolo Lagazzi, il massimo esegeta di Bertolucci (ha curato le Opere per «I Meridiani» Mondadori), in un libro di estatica bellezza, La casa del poeta. Ventiquattro estati a Casarola con Attilio Bertolucci (La nave di Teseo, pagg. 224, euro 20, che rimodella l'edizione uscita da Garzanti nel 2008): la «pratica piretica» ha il fremito che trasfigura, un lampo in provetta, e la costanza del buon aratore inargenta le cose di cenere, le rende fertili. «Assistere al rito del fuoco celebrato dal poeta», scrive Lagazzi, «era per me come riscoprire ogni volta il legame essenziale tra quest'uomo e il calore della rêverie: era una bellissima conferma di come la poesia di Bertolucci si nutrisse delle forze elementari della vita per slanciarsi verso il cielo dei sogni». Nel fuoco è il fulcro della poesia di Bertolucci: semplice, a un occhio disattento, in realtà una misteriosa miniatura, che sfasa la natura del linguaggio. Sentite questa, Lasciami sanguinare, da Viaggio d'inverno (Garzanti, 1971; 1984): «Lasciami sanguinare sulla strada/ sulla polvere sull'antipolvere sull'erba,/ il cuore palpitando nel suo ritmo feriale/ maschere verdi sulle case i rami// di castagno, i freschi rami, due uccelli/ il maschio e la femmina volati via,/ la pupilla duole se tenta/ di seguirne la fuga d'amore». Tutto appare risolto, come nel greto dell'origine e sfugge.

Nel suo libro, Lagazzi ricorda che Bertolucci preferiva conversare in soggiorno e in cucina; preferiva ascoltare «Blind» Willie Johnson, «il chitarrista e cantante cieco utilizzato da Pasolini, proprio per un suggerimento di Attilio, nella colonna sonora del Vangelo secondo Matteo». Non voltava la discussione «verso i massimi sistemi»: auscultava la vita, la scrutava nei minimi anfratti. «Era capace di osservazioni che avevano in sé la forza di un'improvvisa rivelazione o di un koan zen». Gli piaceva il tè rito officiato dalla moglie del poeta, Ninetta Giovanardi , dubitava degli ospiti che non condividevano con lui un bicchiere di vino.

Benché installato tra i poeti pilastro del secondo Novecento insieme a Mario Luzi e a Vittorio Sereni, ad Andrea Zanzotto e a Giorgio Caproni Bertolucci sembra restare, per una valligiana inclinazione alla reticenza, distante, nel ceruleo ciclo di un segreto. Già Pier Vincenzo Mengaldo aveva scritto di un poeta «proverbialmente isolato nel panorama contemporaneo», ma è soltanto Lagazzi, autore che con leggiadra audacia si è occupato di poesia dell'Estremo Oriente ricordo Il muschio e la rugiada. Antologia di poesia giapponese, costantemente ristampata dalla Bur a dissigillare, con cautela, gli enigmi di Bertolucci, le immotivate cupezze, i toni di una poesia che «è un capolavoro di ambiguità», al contempo «innocente e astuta». D'altronde, sapeva crollare, il poeta, conosceva i contorni del terribile: «in lui c'era un lato potenzialmente saturnino (depressivo, angoscioso) di cui era ben consapevole».

Andrebbe detto de La camera da letto (Garzanti, 1984; 1988), il poema della vita, che fonde Omero e Pukin, tra gli sperimenti più vertiginosi, per ampiezza e altitudine, della poesia italiana «ha la freschezza delle cose nate en plein air e la flessibilità liquida dell'action painting», scrive Lagazzi , ma si scivolerebbe per vieti tecnicismi. Dovremmo dire dei figli, Bernardo e Giuseppe, del cinema e degli Oscar, ma scadremmo nella diceria. A memoria, soltanto un altro grande regista ha avuto per padre un grande poeta: Arsenij Tarkovskij, il papà di Andrej, è stato l'ultimo amante di Marina Cvetaeva, il confidente di Anna Achmatova, un poeta che unì il prodigio della precisione a un immaginario spiazzante. Andrej cita spesso le poesie del padre nei suoi film.

Prestigiatore di talento, Lagazzi, nell'eden di Casarola, presso la mitica Locanda Tramaloni, allestiva ogni tanto i suoi trucchi. «Ricordo la felicità di Attilio in quell'occasione.

Era lo spettatore perfetto: sapeva benissimo che il solo atteggiamento giusto di fronte a un prestigiatore è stare al gioco», mi dice consueta è la gentilezza, priva degli inverni che attanagliano spesso quelli della nostra specie. Saper credere a tutti gli inganni. «Credevo a tutti gli incantesimi», scrive Rimbaud. Non è forse questa la formula del poeta? L'uomo che conosce i nomi di tutte le cose che a volte, preferisce cadere nel tranello.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica