Se dovessi confessarmi io, ci impiego una settimana!». È una vecchia battuta? No, è una commedia e addirittura «divina».
Con la logica del pendolo che passa da un estremo all'altro, dai messaggi social di settimana scorsa salto oggi nelle antiche terzine del sommo poeta Dante. Nella cantica del Purgatorio c'è una scena poco ricordata. Si racconta del nobile dissipato Bonconte, incluso tra i consiglieri fraudolenti delle Malebolge. Nel 1287 prese parte alla cacciata dei Guelfi da Arezzo e comandò i Ghibellini contro Firenze a Campaldino (1289), scontro a cui partecipò anche Dante. Qui fu ucciso sul campo di battaglia, ma il suo cadavere non venne mai ritrovato. Questo fatto, unito alle molte malefatte compiute da Bonconte, alimentò la convinzione popolare che fosse stato direttamente inghiottito dall'Inferno. La Divina Commedia, pur includendolo «tra i morti per forza e peccatori fino all'ultima ora» offre una versione diversa. Innanzitutto il protagonista si ritrova semplicemente se stesso: «Io fui di Montefeltro, io son Bonconte», prendendo coscienza di un basso gradimento, persino della sua vedova: «Giovanna o altri non ha di me cura; per ch'io vo tra costor con bassa fronte». Un conto è ciò che hai e fai, un altro è ciò che sei. Colpito al collo da una freccia, «forato ne la gola, fuggendo a piede e sanguinando il piano», perde «la vista e la parola». Non riesce a fare più nulla. Non ha più niente. Non è più nessuno. Non c'è più alcuno. In quel momento estremo ha un pensiero di affidamento, di fiducia, di coscienza che diventa una densa lacrima. È fede? È paura? Chissà! Dice il testo: «Là ove l vocabol suo diventa vano, nel nome di Maria finì, e quivi caddi». Al vuoto movimento delle labbra, senza voce e forza, «l'angel di Dio mi prese». Il demonio allora però scatena una terribile tempesta protestando fortemente: «O tu del ciel, perché mi privi? Tu te ne porti di costui nell'eterno, per una lagrimetta che l mi toglie». Si arrabbia con Dio perché per una lacrimuccia gli ruba quell'anima che era pronto da tempo a prendere per l'inferno.
Non è questo il luogo per una riflessione sul pentimento al fotofinish, né su «quei che volentier perdona» secondo l'identikit che Dante dà di Dio. Sono invece le prime parole di Bonconte a dare lo spunto per questa riflessione: «Deh, se quel disio si compia che ti tragge a l'alto monte, con buona pietate aiuta il mio!». Quando ci si mette soli con se stessi e con schiettezza si guarda in faccia alla propria verità interiore, ci si rende conto che quanto si desidera (il «disio») è strattonato da una parte dai disastri e dall'altra dalle considerazioni. Intorno e dentro si vedono «DISASTRI». Etimologicamente «dis-astri» significa un cielo senza astri, senza stelle. Riducendo il cielo al soffitto e chiudendo l'orizzonte, la terra diventa un inferno da cui scampare. Nella Divina Commedia tutte e tre le cantiche finiscono con la parola «stelle». Dante fugge dagli abissi sospirando: «e uscimmo a riveder le stelle». La voglia di reagire ha come motore i «DESIDERI», dal latino «de-sideribus»: «ciò che riguarda le stelle». Il bisogno di uscire dalla buca, di avere un gancio in mezzo al cielo per tirarsi su, incoraggia ad affrontare sforzi e avversità «disposto a salir a le stelle», come chiude l'ultima riga del Purgatorio. È un'opportunità divina: «Se tu segui la tua stella non puoi fallir a glorioso porto». Questo genera «CONSIDERAZIONI», dal latino «cum-sideribus», che significa «vivere con le stelle», abitare il cielo sulla terra, rendere straordinario l'ordinario, vedere l'invisibile nello scontato, con «l'amor che move il sole e l'altre stelle», come l'Alighieri sigilla il Paradiso.
Quindi magari ci volesse solo una settimana! Per me ci vuole molto di più! Aveva ragione Seneca: «Ci vuole tutta una vita per imparare a vivere»; ci vuole coraggio e
impegno per capire chi sei e chi vuoi essere. Gli fa eco Pablo Picasso: «Ci vogliono molti anni per crescere e diventare giovani», ma questa prospettiva è «quella che mparadisa la mia mente» per lasciar l'ultima parola a Dante.
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