Quel gran rifiuto di Montanelli alla proposta “indecente” di Scalfari

Poco prima che Il Giornale vedesse la luce, il fondatore di Repubblica lo andò a trovare personalmente a Milano, portando in dote un’idea azzardata: lavorare insieme, ma con ruoli diversi

Quel gran rifiuto di Montanelli alla proposta “indecente” di Scalfari

Milano è già un gatto che si stiracchia. Risuona, in lontananza, il tramestio delle prime auto che divorano il nastro d’asfalto. Teiere e moka fischiano. Quel tipo dall’aria distinta percorre il marciapiede per poi incunearsi nel reticolo di case circostanti. Indossa un cappotto di foggia nobile e sotto un abito in pregiato cachemere. Porta anche il mento perennemente alto, tipico di chi sa sfoderare pensate ambiziose senza cercare risposte tra gli interstizi del cemento. E un cappello a tesa larga, che adesso si toglie per entrare nell'androne.

Al campanello, comunque, non c’è scritto “Montanelli”. Indro è ospite di una signora. Vive giorni convulsi, Montanelli. Ha rotto con il Corriere della Sera quando la proprietà, correva il 1972, ha deciso di licenziare in tronco il direttore Giuseppe Spadolini per rimpiazzarlo con Piero Ottone. Quella è stata, a dire il vero, la prima di una serie di incrinature evidenti. E la prima occasione, anche, per estrarre la baionetta: “Non si caccia via un direttore come un domestico ladro”, dichiara in una lunga intervista a L’Espresso. La stigmatizzazione prosegue, sempre rivolgendosi alla famiglia Crespi. Indro critica il modo “autoritario, prepotente e guatemalteco che hanno scelto per imporre la loro decisione”.

Sale la tromba delle scale, intanto, Eugenio Scalfari. Sfregandosi i polpastrelli, s’intende, perché il progetto che coltiva in mente è tanto spericolato quanto potenzialmente deflagrante. Se Indro dicesse di sì – se il duellante per eccellenza di innumerevoli singolar tenzoni capitolasse – allora si potrebbe scrivere una pagina inedita non tanto di un giornale, ma della stessa storia italiana.

C’è una circostanza, a dire il vero alquanto rilevante, che tuttavia Scalfari – interprete arguto del suo tempo come pochi – deve senz’altro aver messo in conto. Montanelli è ambizioso almeno quanto lui. Com’era quella storiella sui due galli nel pollaio?

Il tempismo poi, nella vita, è praticamente tutto. Indro vive giornate conflittuali. Rimugina intensamente, contorce i pensieri per estrarre risposte limpide, ma in cuor suo sa esattemente quello che deve fare. Certo, quando il telefono ha trillato e dall’altro capo del cavo agganciato nel sottosuolo che collega Torino a Milano si è propagata la seducente flemma dell’avvocato Gianni Agnelli, gli ha fatto piacere. Alla Stampa, la terra di mezzo tra il Corriere e la vita che ancora deve succedere, lui si trova pure bene. Però le passioni mica puoi spegnerle mai. Specie quando bussano ogni mattina, salendo dalle viscere. Montanelli è un giornalista, mica un pompiere.

Tambureggia con le dita Scalfari, presentandosi alla porta. La donna apre, introducendolo a un salottino dove Indro lo attende impaziente. Qualche salamelecco di circostanza, un caffè o una spremuta d’arancia offerti, poi il padiglione auricolare si tende per ascoltare, conoscendo già la risposta.

Anche perché se l’erano già detto tempo fa. “Te lo immagini noi due insieme?”. Una suggestione che pareva solleticare maggiormente gli appetiti di Eugenio che quelli di Indro. Troppo distanti, i loro mondi. Gli approcci, i contenuti, il pensiero. L’idea stessa di giornalismo come veicolo di idee per plasmare una società in qualche misura migliore. “Lui era interprete del senso comune, io del buon senso, che sono due cose diverse”, scriverà Scalfari in seguito. Appunto. In comune, semmai, c’è il solo fatto che in quel salotto stanno appollaiati due giganti del mestiere.

Si viene in fretta al dunque. Gli amici–nemici si scrutano, alla ricerca di un qualche impercettibile movimento delle palpebre o delle labbra, che tradisca un’emozione, una sensazione. Poi Scalfari spara le sue cartucce: “Senti, vorrei creare un nuovo giornale. E ti vorrei come direttore”. Segue un silenzio stentoreo. Poi la replica di Indro, intrisa di ribalderia toscana: “No, grazie. Io voglio scrivere articoli, non fare il direttore”. Eugenio se lo aspettava e infatti prova a rassicurarlo: “Guarda, mi basta che tu faccia i tuoi editoriali da direttore. Per il resto penso a tutto io”.

Montanelli solleva quei due grandi bottoni azzurri fin sotto le palpebre, mostrando perplessità. Ma la signorilità, tratto che li contraddistingue entrambi, gli impedisce di divelgere i sogni altrui senza almeno simulare un minimo di interesse. Congeda Scalfari dicendogli che si prenderà un paio di giorni per pensarci, ma che la risposta sarà con ogni probabilità “no”. Quando lo accompagna all’ingresso e richiude la porta, quell'idea che gli rimbalza in testa da un pezzo è ancora più esuberante. Lui un giornale vuole fondarlo. Mica dirigere quello di qualcun altro.

Lo sa anche Scalfari, che deve sorridere amaro mentre discende la scalinata. Due giorni dopo incasserà un inevitabile rifiuto. Poco più tardi emetteranno i primi vagiti Il Giornale e La Repubblica.

Manifestazioni evidenti di caratteri antitetici e debordanti, impossibili da tenere appiccicati. E, in fondo, è stato meglio così. Quel gran rifiuto di Montanelli a una proposta allettante ha difeso la vita altrimenti gracile del pluralismo italiano.

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