Era arrivato a Sanremo convinto che quel pezzo avrebbe raccolto i consensi del pubblico e flirtato col mucchio della critica. La canzone si chiamava "Ciao amore ciao" e Luigi Tenco doveva eseguirla insieme alla diva francese Dalida. Era giovane, Luigi. Ventotto anni soltanto. Eppure, se si guardava alle spalle, aveva già prodotto una quantità di testi che sarebbero rimasti incisi per sempre nell'orizzonte musicale italiano. Lo sapeva, di essere un sofisticato talento. Di avere qualcosa da dire, e che quel qualcosa doveva essere davvero di più e più alto rispetto ai brani con cui si dimenavano i colleghi.
Ma non tutti la pensavano così. Il 26 gennaio del 1967, durante la prima serata del Festival condotto da Mike Bongiorno, Tenco salì sul palco convinto dal suo racconto interiore, ma la giuria lo sbattè brutalmente fuori. Solo 38 voti a favore su 900, una sentenza difficile da deglutire. Anche il ripescaggio fallisce: la giuria presieduta dal giornalista Ugo Zatterin gli preferisce "La rivoluzione", di Gianni Pettenati. Uno schiaffo solenne alla sua idea di musica, alla performance, al duetto con la magnetica collega. Tenco sfilava via dal Salone delle feste del Casinò di Sanremo atteritto, stranito, svuotato come sa essere soltanto chi ha smarrito qualcosa in cui credeva troppo. Luigi accompagnava Dalida ad un ristorante, ma non si fermava. Se ne tornava dritto in camera, all'Hotel Savoy.
La stanza era la 219. Tenco entrava e per prima cosa si attaccava alla cornetta. La prima telefonata l'aveva riservata a Ennio Melis, capo della RCA, ma quello non aveva risposto. La seconda l'aveva fatta alla sua fidanzata, a notte inoltrata. Un'ora dopo, alle 2.10 del mattino, il suo corpo senza vita veniva ritrovato da Dalida, sconcertata dalla morte irruenta e violenta che arriva senza il minimo preavviso. Un colpo di pistola alla tempia e un biglietto scritto di suo pugno, come appureranno le successive perizie.
“Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda ‘Io tu e le rose’ in finale e ad una commissione che seleziona ‘La rivoluzione’. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”.
Si apre qui il circo delle ipotesi. Il cadavere del cantautore viene ritrovato con le gambe riposte sotto al cassettone della camera d'albergo, posizione del resto innaturale per un suicida. Si apprende, dalle successive inchieste condotte da giornalisti e procuratori, che la polizia non aveva fatto gli scatti di rito alla salma e che il commissario, accortosi dell'indicibile errore, aveva ordinato di riportarla al Savoy riposizionandola nell'esatta posizione in cui era stata trovata.
Negli anni Novanta una meticolosa inchiesta portata avanti dai giornalisti Marco Buttazzi e Andrea Pomati cerca di porre un fascio di luce su una vicenda surreale. Nonostante la riapertura del fascicolo sulla morte di Tenco, tuttavia, continua a reggere nel tempo il primo scenario, quello del suicidio. A distanza di cinquantasei anni resta però ancora una patina di perplessità. Com'è stato possibile che un cantautore di quel calibro, nel periodo più rigoglioso della sua esistenza come uomo e artista, abbia virato per un gesto così estremo? Quel che continua a destare dubbi, del resto, è la sproporzione tra la causa e l'effetto. Si fatica a credere che un'eliminazione, pur dolorosa, possa aver fatto detonare una protesta autodistruttiva.
Dubbi che nemmeno il tempo è riuscito finora a dissipare.
Il caso Tenco è destinato a rimanere un pezzo oscuro della storia italiana. Le canzoni restano, ma il pensiero di quanto ancora avrebbe potuto dare questo artista geniale, che nella sua lettera d'addio si professava tutt'altro che stanco della vita, è come un altro colpo di pistola.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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