Non basta non fare il male, occorre anche fare il bene. Altrimenti si rischia di ferire chi non la pensa come noi

È proprio vero che ognuno interpreta la realtà dal suo punto di vista, attivando uno dei rischi più pericolosi delle relazioni: l'egoismo. Non è solo il fare come si vuole, ma il pretendere che gli altri pensino come penso io, facciano come faccio io, siano come mi aspetto io

Non basta non fare il male, occorre anche fare il bene. Altrimenti si rischia di ferire chi non la pensa come noi
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Una signorotta distinta, con i capelli fonati in piega tinti biondo cenere che facevano da cornice alla rotondità del viso dove un sorriso aperto illuminava le rughe rendendole soffici onde che si propagavano, motivava con piglio deciso: «Lei deve sapere, Reverendo, che io vado a messa sempre». Pausa. Bene! Siamo contenti! Respiro della donna, che poi continuava con tono più pacato a labbra strette, scuotendo impercettibilmente il mento: «A Natale ci vado sempre!». Ops! Il concetto di «sempre» è proprio alquanto soggettivo.

È proprio vero che ognuno interpreta la realtà dal suo punto di vista, attivando uno dei rischi più pericolosi delle relazioni: l'egoismo. Non è solo il fare come si vuole, ma il pretendere che gli altri pensino come penso io, facciano come faccio io, siano come mi aspetto io. Oscar Wilde lo spiega meglio: «Una rosa rossa non è egoista perché vuole essere una rosa rossa. Sarebbe orribilmente egoista se volesse che i fiori del giardino fossero tutti rossi e tutte rose». Così si diventa ego-centrici, ego-espansi, ego-deliranti.

Il confessionale in questo lancia una provocazione: non basta constatare «non ho fatto nulla di male!», ma è opportuno anche chiedersi «cosa ho fatto di bene?». Il passaggio dal punto esclamativo su se stessi al punto di domanda fa accorgere di come quello che dico, quello che penso, quello che faccio, anche se non è male per me, non è detto che sia necessariamente bene per l'altro. Se si lancia un oggetto dalla finestra, viene spontaneo

stare attenti a non ferire qualcuno. Perché lo stesso non vale ad esempio per le parole, per i messaggi, per le mail, per i post? Cosa vuoi che sia un sassolino? Nulla. E magari se è decorato con un disegno in miniatura è ritenuto meraviglioso, ma non credo sia esattamente dello stesso parere chi se lo prende sulla testa.

La mia percezione non sempre arriva all'altro nello stesso modo con cui la faccio partire. Anzi, spesso è proprio il contrario: quante litigate nascono per un whatsapp scritto con un'idea e letto in modo totalmente travisato. La colpa è solo di chi riceve perché capisce male? Facile usare questa giustificazione. Se invece fosse necessario mettere a fuoco in modo diverso la partenza? È buono per me, ma fa bene agli altri?

Ci sta qui un appunto sulla scena che all'inaugurazione delle Olimpiadi ha aperto la forte discussione tra chi da una parte denuncia l'amarezza per la blasfemia che ha profanato la scena dell'ultima cena ricordando l'opera di Leonardo e dall'altra la tranquilla giustificazione di chi afferma che gli organizzatori si sono ispirati all'opera di Jan Harmensz van Bijlert La festa degli dei, dipinto nel 1635 e conservato al museo di Dijon, in Francia, dove il contesto è l'Olimpo e al centro c'è Apollo. Questa riflessione non intende entrare nel dibattito su bene e male, ragione o torto, soggetto A o soggetto B, volontà canzonatoria o ingenua frivolezza, ma vuole aggiungerne un pezzo: l'importanza della percezione della sensibilità e dell'identità dell'altro, la cui mancanza causa una relazione inquinata per deformazione di comprensione.

Se si porta un diabetico in una pasticceria perché gli si vuole offrire delizie buonissime e golosissime, in realtà gli si sta dando veleno. Lo sono? «No!» per il pasticcere e per chi le dona. Lo sono? «Sì!» per il diabetico che le mangia. Veleno o dessert? Dipende paradossalmente non da chi lo produce, né da chi lo dona, ma da chi lo riceve.

Questo vale per il fatto delle Olimpiadi, ma anche per tante piccole nostre azioni: se ci facessimo più spesso la domanda «cosa ho fatto di bene?» invece del solito alibi «non c'è niente di male!», ci troveremmo forse a evitare o modificare o limare anche solo una parola, riuscendo non solo a non far male o offendere la sensibilità, ma anche a far star bene e per di più a star meglio noi, evitandoci noie rognose o perdite di tempo giustificatrici o bruciori di stomaco nel discutere. La logica del confessionale che spinge a obiettivizzare punti di vista differenti dal proprio è molto simile a quanto insegna un proverbio orientale: «Ogni problema ha tre soluzioni: la mia, la tua e quella giusta».

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