Balboni, il virtuoso dimenticato che ha giocato per l'eternità

Ha lavorato nel suo studio fino a 73 anni. Contemporaneo di nessuno, la sua arte è il rimpianto di un mondo antico

Balboni, il virtuoso dimenticato che ha giocato per l'eternità

In via Cammello, a Ferrara, dietro le case degli Ariosti, poi Cavallini Sgarbi, nella piccola chiesa di San Gregorio Magno mia madre si è sposata e ha avuto i suoi funerali.

Nella stessa strada, poco lontano, aveva casa e studio Giorgio Balboni, pittore conservatore e ostinatamente figurativo, proprio negli anni delle più furenti e radicali sperimentazioni. Egli esce dall'Istituto d'Arte Adolfo Venturi di Modena nel 1966. Nel 1967 nasce l'arte povera. Due mondi si scontrano. La metafora musicale, a lui tanto cara, è calzante. Alla nuova musica dei complessi rock di quegli anni si contrappone, e resiste, il melodico Claudio Villa. Nella pittura, da quegli anni e in sempre crescente contrasto, egli è l'equivalente di Claudio Villa. Voce calda impostata, per esigenze teatrali.

L'altra sera è accaduto qualcosa di misterioso e di triste. Sono tornato, dopo anni a suonare alla porta di Giorgio (il pittore del mio giovanile ritratto che ci accoglie a Osimo). Ho suonato e chiamato a gran voce per farmi aprire, con insistenza, senza aver risposta. Il giorno dopo è arrivato un messaggio a mia sorella Elisabetta. Diceva che Balboni era stato trovato in casa morto. Era già morto la sera prima quando io urlavo al cielo il suo nome. Non era fuori casa come avevo creduto. Non c'era più per sempre. Non potrò più andare a trovarlo. Non potrò più rivedere il suo studiolo segreto, pieno di quadri imbarazzanti per i nostri tempi rinunciatari. In realtà egli era nato virtuoso, dotato di bella mano come chi è dotato di bella voce. Perché storpiarla cantando in modo stonato, urlando scompostamente? Perché disturbare l'armonia, delle voci come delle forme? Negli anni della formazione di Balboni la consegna era diventata: o avanguardia o morte. E, intanto, Balboni dipingeva, dipingeva. E mi diede subito la prova del suo mestiere, esattamente trent'anni fa con il mio ritratto bellicoso ambientato nelle sale del Caffè Florian a Venezia, proprio sotto il mio ufficio di Soprintendente alle Belle Arti in piazza San Marco, postazione gloriosa e romantica sopra un cumulo di rovine. Ci guardiamo, ci confrontiamo in quel dipinto, come una sfida, io contro il mondo, lui contro i millantatori di un'arte mistificatoria, negazionistica, che finge di credere che i divertimenti infantili di spiriti deboli siano opere d'arte, senz'anima e senza idee. Quanto ha sofferto, povero Giorgio, chiuso nella sua provincia, stretto nella città di Ferrara indifesa e in difesa contro il mondo. Lì poteva dipingere come un maestro antico, ignorato da tutti, libero e prigioniero, con il conforto dello sguardo di qualche amico collezionista, di mia madre che lo proteggeva sotto la mia alterna ala, di Angela e Stefano Bighi. Balboni sapeva, in questi tempi, di essere uno sconfitto, ma si misurava sull'eternità. Era presuntuoso e disarmato, umile e superbo, velleitario e consapevole. Il giudizio del nostro tempo, e ancor peggio l'indifferenza erano transitori. Perfino per i suoi coetanei artisti ferraresi, spesso più sfigati di lui, non era un contemporaneo. Era un caso a parte, comunque stravagante, eccentrico, un pittore antico spaesato e disperso nel nostro tempo. Un virtuoso, esattamente come Claudio Villa, melodico prestato al rock. Fuori da tutto, inattuale. Il suo meraviglioso collega, Adelchi Riccardo Mantovani, nato a Ro, era per tempo fuggito a Berlino per poter lavorare indisturbato, ai suoi soli miti, infinito rimpianto di una infanzia nell'immediato dopoguerra, con struggenti ricordi di scuole, di collegi, di ciò che restava della Ferrara rinascimentale e metafisica. Anche Balboni, nell'evidenza realistica dei suoi soggetti, non era un realista, e neppure un iperrealista. Era piuttosto un illusionista; e un illuso. La sua pittura era uno struggente rimpianto non della pittura antica, ma di un mondo antico, di una vita diversa, di una grazia perduta. Toccava a lui, almeno in parte, restituirla. E così fece con il ritratto di mia sorella, reinventato su un modello di Dante Gabriele Rossetti. E gli riuscì sonoro e stereofonico, come una riedizione di Valori plastici. Si applicò poi a mio padre, nel camice bianco della sua funzione professionale: un serio farmacista. D'altra parte, era giusto. Il tenente Giuseppe Sgarbi era passato dalla divisa militare a quella sanitaria: sempre fu soldato. Oggi veste da aristocratico scrittore di campagna.

Giorgio mancò solo mia madre, per sua natura imprendibile, e che pure, oltre che vicina di casa, era stata sua convinta estimatrice, e l'aveva confortato nella sua impresa umana e artistica. Lui l'amava, ma capiva il suo limite d'amore, e non la ritrasse. Ci fu un tempo lontano, tra il 1976, quarant'anni fa, e il 1986, che io lo frequentai assiduamente, e anche con il fastidio di riconoscerne la piena sonorità pittorica (che si manifesta in alcune magistrali nature morte, nello spirito di Cagnaccio di San Pietro, allora trascuratissimo), cercando di emendarlo nei soggetti, di manichini, più per sartoria che metafisica, e altri temi bamboleggianti, per ricondurlo a un magistero sobrio. Ma era inutile: pur ascoltandomi, prevalevano in lui il belcanto, e la voluttà di mostrare il suo mestiere, di stupire, dicendo troppo e con tutte le sonorità di cui era capace, senza riuscire a essere evocativo. Lo indussi una volta al «non finito», così lontano dalla sua sensibilità, ma gli riuscì, anche quello, finitissimo, e verniciatissimo. Ecco, nelle vernici finali, era imbattibile: esse erano l'acuto del suo belcanto.

Con il suo silenzio, al mio bussare, l'altra notte, con la sua mancata risposta, il suo virtuoso canto è finito. Su via Cammello scenderà una lunga notte. Da Giorgio non si tornerà se non con la memoria di tempi difficili, ma comunque felici. Troppa morte ci separa.

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