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Un bel museo Ma l’Italia dov’è?

Allestimento e organizzazione ben curati. Annunciata per il 2006 la riapertura del nostro padiglione

da Venezia
«Que viva España!», e non solo perché spagnole sono le direttrici della Biennale di Venezia (non una, ma ben due donne!), María de Corral, titolare della mostra più «storica» al Padiglione Italia, e Rosa Martínez che firma la più «aperta» rassegna all’Arsenale. Ma anche perché la Spagna ci regala il Padiglione più interessante con Antoni Muntadas che qui presenta, all’interno del più complesso progetto «On Translation», un’indagine sulla “macchina” Biennale considerata come luogo metaforico e sulla geopolitica dei Giardini con i Padiglioni nazionali, nati a modello degli Expo Universali.
È notevole che l’attenzione al contesto si ritrovi anche altrove, nelle forme e negli artisti più diversi. La simmetrica struttura neoclassica e il simbolismo architettonico “jeffersoniano” del Padiglione degli Stati Uniti ispira Course of Empire (dal titolo di Thomas Cole, 1836, sul tema del progresso), serie di raffinatissimi dipinti di Ed Ruscha, uno dei grandi pittori di oggi. Nel neonato Padiglione cinese Wang Qiheng legge la collocazione dei padiglioni secondo l’antico fengshui. Sul sicuro puntano Gran Bretagna e Francia presentando Gilbert & George e Annette Messager. Rebecca Belmore segue la tradizione video canadese; interessante il Padiglione israeliano con Guy Ben-Ner, mentre Hans Schabus trasforma interno ed esterno di quello austriaco. L’Albania è alla prima partecipazione ufficiale con Sisley Xhafa che in passato si è fatto padiglione ambulante e clandestino e ora ci accoglie con una gigante e piangente maschera da Ku Klux Klan.
Le due mostre internazionali si affidano, più che a progetti e temi o all’attiva partecipazione degli artisti, alla qualità di opere nitidamente presentate. L’esperienza dell’arte è aperta da un omaggio a Juan Muñoz e da Minimal Romantik di Monica Bonvicini, un cubo a misura di quelli di Sol Lewitt sopra cui operai costruiscono un mare di ghiaccio ispirato a Friedrich, e ha la sua più bella sala con l’installazione di intensi disegni e forti sculture di Thomas Schütte, mentre ovvie anche se belle sono le stanze con Bacon, Tapies e Guston: quest’anno tutto appare più museale, meno Biennale.
Frequente l’uso di video: da quelli di William Kentridge e Stan Douglas all’opera “postcolonialista” di Tania Bruguera, uno stretto corridoio di bustine di the e microvideo; dalla preghiera per cani e campane di Eija-Liisa Ahtila (girato nel Benin) al pittorico Palast dedicato a un’architettura berlinese da Tacita Dean. Due remake: un gustoso trailer dedicato al Caligola di Gore Vidal e Tinto Brass da Francesco Vezzoli, con star come Courtney Love e Benicio del Toro e veterane come Adriana Asti, e una hitchcockiana “finestra sul cortile” ricreata da Leandro Erlich che ci fa spiare interni-monitor dietro alle tapparelle. Molti i video, da Berni Searle a Runa Islam a Emily Jacir, anche nella multiculturale «Sempre un po’ più lontano», titolo ispirato al veneziano Corto Maltese, romantico viaggiatore.
Più che nelle provocazioni delle Guerrilla Girls e di Joana Vasconcelos un emblema di questa mostra potrebbe essere individuato in Hope Hippo, cavallo da fiume invece che da guerra, mostro da canale fatto della decadente materia di Venezia, il fango, opera della coppia Allora e Calzadilla. Di Mona Hatoum è stato scelto un minimale deserto a cerchi concentrici; Mariko Mori ci porta all’interno di una capsula per un sogno a occhi aperti, in realtà proiezione di nostri stati d’animo; John Bock ci trascina nel cuore di una performance teatrale. Fare poesia con nulla o quasi è da sempre qualità di Bruna Esposito che sospende Perla a piombo o fa precipitare delicate sfoglie di cipolla sul marmo. Bellissima l’installazione di Carlos Garaicoa dove cielo e terra reciprocamente riflettono architetture luminose; intensa e suggestiva la performance di Maria Teresa Hincapié tra musica, gabbie di uccelli e luce di candele.
In questa edizione la struttura semplificata ha permesso all’organizzazione un salto di qualità, l’allestimento è molto curato, la comunicazione anche. Inoltre la presidenza Croff ha il merito di aver affrontato l’imbarazzante problema della masochistica autosoppressione del Padiglione Italiano: anche se di nuovo non è presente a causa di una ingiustificata sparizione per quattro consecutive edizioni, l’attuale consiglio ha preso il toro per le corna e alle Tese campeggia la scritta «Padiglione Italia apertura 2006». Perché però non pensare a riconvertire il nostro Padiglione Italia ai Giardini e creare all’Arsenale un nuovo spazio attrezzato per la mostra internazionale? E soprattutto il problema non è lo spazio, ma la designazione del commissario: eccellente la scelta di Ida Gianelli. I risultati di molti Padiglioni in questa edizione, raggiunti attraverso impegno e consapevolezza dell’importanza di rappresentare la cultura del proprio Paese, devono costituire un modello e ripropongono la necessità della dialettica tra la mostra internazionale e il vero nucleo storico della Biennale, i Padiglioni appunto, antidoto naturale alla crescente globalizzazione.


Occorre però anche ridefinire il ruolo della Biennale: vivace, varia e sperimentale come quelle di Bonito Oliva e Bonami o museale come le due, pur diverse, di Celant e Clair? Una strada è stata aperta nel ’99 dall’indimenticabile Harald Szeemann: spazio per le opere, tempo per la contemplazione, ma profondo coinvolgimento degli artisti, acuminato taglio sui temi della contemporaneità e, oltre al brivido di tante opere appositamente realizzate, il rischio delle scelte.

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