da Venezia
«Que viva España!», e non solo perché spagnole sono le direttrici della Biennale di Venezia (non una, ma ben due donne!), María de Corral, titolare della mostra più «storica» al Padiglione Italia, e Rosa Martínez che firma la più «aperta» rassegna allArsenale. Ma anche perché la Spagna ci regala il Padiglione più interessante con Antoni Muntadas che qui presenta, allinterno del più complesso progetto «On Translation», unindagine sulla macchina Biennale considerata come luogo metaforico e sulla geopolitica dei Giardini con i Padiglioni nazionali, nati a modello degli Expo Universali.
È notevole che lattenzione al contesto si ritrovi anche altrove, nelle forme e negli artisti più diversi. La simmetrica struttura neoclassica e il simbolismo architettonico jeffersoniano del Padiglione degli Stati Uniti ispira Course of Empire (dal titolo di Thomas Cole, 1836, sul tema del progresso), serie di raffinatissimi dipinti di Ed Ruscha, uno dei grandi pittori di oggi. Nel neonato Padiglione cinese Wang Qiheng legge la collocazione dei padiglioni secondo lantico fengshui. Sul sicuro puntano Gran Bretagna e Francia presentando Gilbert & George e Annette Messager. Rebecca Belmore segue la tradizione video canadese; interessante il Padiglione israeliano con Guy Ben-Ner, mentre Hans Schabus trasforma interno ed esterno di quello austriaco. LAlbania è alla prima partecipazione ufficiale con Sisley Xhafa che in passato si è fatto padiglione ambulante e clandestino e ora ci accoglie con una gigante e piangente maschera da Ku Klux Klan.
Le due mostre internazionali si affidano, più che a progetti e temi o allattiva partecipazione degli artisti, alla qualità di opere nitidamente presentate. Lesperienza dellarte è aperta da un omaggio a Juan Muñoz e da Minimal Romantik di Monica Bonvicini, un cubo a misura di quelli di Sol Lewitt sopra cui operai costruiscono un mare di ghiaccio ispirato a Friedrich, e ha la sua più bella sala con linstallazione di intensi disegni e forti sculture di Thomas Schütte, mentre ovvie anche se belle sono le stanze con Bacon, Tapies e Guston: questanno tutto appare più museale, meno Biennale.
Frequente luso di video: da quelli di William Kentridge e Stan Douglas allopera postcolonialista di Tania Bruguera, uno stretto corridoio di bustine di the e microvideo; dalla preghiera per cani e campane di Eija-Liisa Ahtila (girato nel Benin) al pittorico Palast dedicato a unarchitettura berlinese da Tacita Dean. Due remake: un gustoso trailer dedicato al Caligola di Gore Vidal e Tinto Brass da Francesco Vezzoli, con star come Courtney Love e Benicio del Toro e veterane come Adriana Asti, e una hitchcockiana finestra sul cortile ricreata da Leandro Erlich che ci fa spiare interni-monitor dietro alle tapparelle. Molti i video, da Berni Searle a Runa Islam a Emily Jacir, anche nella multiculturale «Sempre un po più lontano», titolo ispirato al veneziano Corto Maltese, romantico viaggiatore.
Più che nelle provocazioni delle Guerrilla Girls e di Joana Vasconcelos un emblema di questa mostra potrebbe essere individuato in Hope Hippo, cavallo da fiume invece che da guerra, mostro da canale fatto della decadente materia di Venezia, il fango, opera della coppia Allora e Calzadilla. Di Mona Hatoum è stato scelto un minimale deserto a cerchi concentrici; Mariko Mori ci porta allinterno di una capsula per un sogno a occhi aperti, in realtà proiezione di nostri stati danimo; John Bock ci trascina nel cuore di una performance teatrale. Fare poesia con nulla o quasi è da sempre qualità di Bruna Esposito che sospende Perla a piombo o fa precipitare delicate sfoglie di cipolla sul marmo. Bellissima linstallazione di Carlos Garaicoa dove cielo e terra reciprocamente riflettono architetture luminose; intensa e suggestiva la performance di Maria Teresa Hincapié tra musica, gabbie di uccelli e luce di candele.
In questa edizione la struttura semplificata ha permesso allorganizzazione un salto di qualità, lallestimento è molto curato, la comunicazione anche. Inoltre la presidenza Croff ha il merito di aver affrontato limbarazzante problema della masochistica autosoppressione del Padiglione Italiano: anche se di nuovo non è presente a causa di una ingiustificata sparizione per quattro consecutive edizioni, lattuale consiglio ha preso il toro per le corna e alle Tese campeggia la scritta «Padiglione Italia apertura 2006». Perché però non pensare a riconvertire il nostro Padiglione Italia ai Giardini e creare allArsenale un nuovo spazio attrezzato per la mostra internazionale? E soprattutto il problema non è lo spazio, ma la designazione del commissario: eccellente la scelta di Ida Gianelli. I risultati di molti Padiglioni in questa edizione, raggiunti attraverso impegno e consapevolezza dellimportanza di rappresentare la cultura del proprio Paese, devono costituire un modello e ripropongono la necessità della dialettica tra la mostra internazionale e il vero nucleo storico della Biennale, i Padiglioni appunto, antidoto naturale alla crescente globalizzazione.
Occorre però anche ridefinire il ruolo della Biennale: vivace, varia e sperimentale come quelle di Bonito Oliva e Bonami o museale come le due, pur diverse, di Celant e Clair? Una strada è stata aperta nel 99 dallindimenticabile Harald Szeemann: spazio per le opere, tempo per la contemplazione, ma profondo coinvolgimento degli artisti, acuminato taglio sui temi della contemporaneità e, oltre al brivido di tante opere appositamente realizzate, il rischio delle scelte.
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