Negli ultimi anni la sua incidenza è aumentata in maniera esponenziale, in particolar modo nei Paesi industrializzati. In Italia si stima che ne siano affetti circa 3 milioni e mezzo di individui. Stiamo parlando del diabete di tipo 2 (definito anche "mellito"), una malattia metabolica caratterizzata da iperglicemia, ossia un aumento del quantitativo di zuccheri nel sangue. La sua insorgenza è strettamente legata all'insulina, un ormone secreto dalle cellule beta del pancreas indispensabile per mantenere nella norma i livelli ematici di glucosio. L'iperglicemia può essere la conseguenza di due anomalie che, nella maggior parte dei casi, coesistono:
- la resistenza dei tessuti all'azione dell'insulina (insulino-resistenza);
- il progressivo e irreversibile declino della capacità delle cellule beta delle isole di Langerhans di produrre insulina (deficit di secrezione dell'insulina).
In linea di massima il diabete compare con la cosiddetta insulino-resistenza. Questo stato provoca una maggiore richiesta di insulina che, tuttavia, le cellule beta delle isole di Langerhans non sono in grado di soddisfare. Ecco quindi che al peggioramento delle capacità funzionali di tali cellule si associa, altresì, l'iperglicemia. Recentemente gli scienziati del Tokyo Institute of Technology hanno scoperto che la dopamina è in grado di regolare la secrezione di insulina attraverso un complesso eteromico di recettori. Questo studio apre la strada alla realizzazione di nuovi bersagli terapeutici.
Le cause del diabete
Nella maggior parte dei casi le cause del diabete sono da imputare a stili di vita scorretti e ad eccessi alimentari che, a lungo andare, provocano l'iperglicemia. Attenzione, dunque, a:
- dieta ricca di zuccheri semplici;
- obesità;
- sedentarietà;
- livelli di colesterolo HDL uguali o inferiori a 35 mg/ml;
- livelli di trigliceridi uguali o superiori a 250 mg/ml;
- ipertensione.
Non devono, tuttavia, essere sottovalutati altri fattori di rischio come l'appartenenza alla popolazione nera e ispanica, la familiarità, l'età avanzata, una storia di diabete gestazionale e la sindrome dell'ovaio policistico. Esiste poi una connessione tra il diabete e il Covid. A scoprirla i ricercatori dell'Università di Padova. Dallo studio pubblicato su Diabetes Research and Clinical Practice è emerso che coloro che soffrono della patologia hanno una probabilità doppia di sviluppare una forma più grave di polmonite interstiziale e di finire in terapia intensiva.
I sintomi e le complicanze del diabete
Il diabete mellito è subdolo poiché, a differenza di quello di tipo 1 che esordisce in maniera brusca, si instaura in maniera molto lenta. Talvolta la sintomatologia impiega anche diversi anni per manifestarsi. Sono sintomi tipici:
- la poliuria, ossia la necessità di urinare spesso;
- la polifagia, cioè l'appetito intenso;
- la polidipsia, ovvero il bisogno di bere frequentemente;
- la stanchezza;
- le infezioni ricorrenti;
- la visione offuscata;
- la cefalea;
- il prurito cutaneo;
- la lenta guarigione delle ferite;
- l'irritabilità.
Dagli esami del sangue può emergere uno stato di iperglicemia a digiuno e dopo i pasti, l'iperuricemia, l'ipertrigliceridemia e la glicosuria. Il diabete non deve mai essere sottovalutato. Tra le complicanze acute rientra il temibile coma iperosmolare non chetosico. A lungo andare, invece, si possono sviluppare patologie cardiovascolari, neuropatie e nefropatie.
Il diabete e il microbiota intestinale
Con il termine microbiota intestinale (o flora intestinale) si indicano i milioni di microrganismi (soprattutto batteri) simbionti, ovvero che traggono beneficio dalla permanenza nell'intestino e che, a loro volta, apportano vantaggi. Tra questi ultimi ricordiamo la produzione delle vitamine B e K, la digestione di alcune sostanze, il supporto del sistema immunitatio e la protezione della mucosa intestinale. Il microbiota, per la sua complessità, può essere quasi considerato un organo a sé stante e, in quanto tale, è estremamente delicato. Diversi sono i fattori che possono alterarne il funzionamento: la dieta, lo stress, l'assunzione di alcuni farmaci, le variazioni ormonali.
Gli scienziati del Cedars-Sinai hanno scoperto che le persone con livelli più elevati di un batterio chiamato "Coprococcus" avevano una maggiore sensibilità all'insulina. Al contrario, per i soggetti con livelli più elevati del batterio "Flavonifractor" la sensibilità all'insulina era ridotta. Inoltre il team è giunto alla conclusione che gli individui che non elaborano correttamente l'insulina presentano una quantità minore di batteri che producono un acido grasso noto come butirrato. Lo studio, guidato dal PhD Mark Goodarzi, è stato pubblicato su Diabetes.
Lo studio
All'indagine hanno preso parte 352 pazienti con diabete reclutati dal Wake Forest Baptist Health System di Winston-Salem, nella Carolina del Nord. Ad essi è stato chiesto di partecipare a tre visite cliniche e di raccogliere prima delle stesse campioni di feci. Questi campioni servivano per il sequenziamento genetico al fine di studiare i microbiomi dei partecipanti e di cercare batteri che in precedenza erano stati associati alla resistenza all'insulina. Ciascun individuo, inoltre, ha compilato un questionario dietetico ed ha effettuato un test di tolleranza al glucosio orale.
I ricercatori hanno scoperto che 28 persone avevano risultati di tolleranza al glucosio orale che soddisfacevano i criteri per il diabete. Inoltre 135 soggetti erano affetti da prediabete, una condizione in cui i livelli di zucchero sono più alti della norma ma non abbastanza da poter parlare di diabete. Successivamente sono state analizzate le associazioni fra 36 batteri produttori di butirrato trovati nei campioni fecali e la capacità di un paziente di preservare livelli normali di insulina. Sono altresì stati vagliati i fattori di rischio dell'iperglicemia: età, sesso, razza, indice di massa corporea.
Il Coprococcus e altri microrganismi formavano una rete batterica con effetti benefici sulla sensibilità all'insulina. Invece il Flavonifractor era associato a insulino resistenza. Gli scienziati stanno continuando a studiare altri campioni di individui che hanno partecipato allo studio per capire come la produzione di insulina e la composizione del microbiota cambino nel tempo.
Ha così concluso Goodarzi: «L'ipotesi di assumere probiotici è ancora un po' troppo sperimentale. Abbiamo bisogno di ulteriori ricerche per identificare i batteri specifici che dobbiamo modulare per prevenire o curare il diabete. Arriveranno nei prossimi cinque o dieci anni».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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