Alberto Zangrillo è uno dei pochi che dice la verità nuda e cruda a Berlusconi, anche quando non è semplice. Ecco perché non lo si può semplicemente definire il medico di fiducia del Cavaliere, ma un «angelo custode» che scavalca lo stato maggiore di Forza Italia, va oltre ogni formalismo gerarchico della politica e c'è sempre. C'era ai tempi del «menomale che Silvio c'è» e c'era durante i fischi, gli insulti, i problemi di salute, i processi. Ma lui non si sente un uomo di potere. Solo un amico che ha scelto di non mischiarsi alla fila degli «yes men».
A parte questo suo paziente un po' particolare, per il resto della giornata la sua vita è principalmente in corsia e nelle terapie intensive. Si presenta all'intervista in camice azzurro e Nike: «Tra mezz'ora devo tornare in sala operatoria». Alle mail risponde di notte. «Ho un vantaggio: dormo pochissimo».
Zangrillo, ma è vero che lei e Silvio Berlusconi vi date del lei?
«Lui mi dà del tu ed ha più volte tentato di convincermi a fare altrettanto ma invano. Vede, la mia è una forma di rispetto ma anche un modo per distinguersi da quella lunga fila di personaggi che pensano di essere arrivati perché lo chiamano Silvio. La vera amicizia io la dimostro quando non sono d'accordo con lui e gli spiego il perché».
Come vi siete conosciuti?
«Nel 2001 Piersilvio Berlusconi, grazie a un amico comune, mi ha chiesto se me la sentivo di occuparmi del padre. Una bella sfida visto che non conosce il significato della parola riposo. Inoltre era da tempo personaggio pubblico molto esposto».
Qual è stato il momento più difficile?
«Dovergli dire che se non si fosse operato al cuore avrebbe rischiato di morire».
E uno dei momenti che ricorda con più piacere?
«I più belli sono molto personali e quindi da custodire. Ma ricordo la notte prima del discorso al Congresso americano del primo marzo 2006. Erano le 4 del mattino, le nostre camere nella guest house della Casa Bianca erano comunicanti, ho sentito la sua voce: era sveglio, alla scrivania e lavorava al discorso in inglese, come il più diligente degli studenti prima di un esame. Il giorno dopo quel discorso è stato interrotto da 18 standing ovation».
Lei è stato al fianco di Berlusconi in mezzo agli applausi ma anche ai fischi.
«Un giorno ero in macchina con lui, direzione San Babila. Lo vedevo teso, concentrato. Non ho fatto domande. Dopo poco ha aperto la portiera, si è alzato in piedi e ha fatto il famoso annuncio del predellino. Ero con lui in macchina anche quando gli hanno tirato addosso la statuetta del Duomo. Ero lì, con la camicia sporca di sangue, quando lui ha voluto fermare l'auto e scendere per far vedere che c'era, era vivo».
Questo rapporto di fiducia ha fatto bene alla sua carriera o le ha messo addosso un'etichetta difficile da gestire?
«La mia storia di medico e di professore universitario è frutto di sacrifici, rinunce e grande passione. Ovviamente il mio rapporto col presidente facilita maliziose insinuazioni ma ogni ricercatore, nel mondo, è valutato secondo indici obiettivi e verificabili da tutti. Il mio H index, si chiama così, non è influenzabile da Berlusconi. Ciò detto, stargli accanto è un privilegio pazzesco: apprezzo il coraggio, le intuizioni, la forza di volontà».
Nel 2008 rifiutò la nomina di ministro della sanità. Perché?
«In realtà nessuno mi propose nulla. Lei sa benissimo che la lista dei pretendenti o dei papabili per ogni dicastero non consente atti di particolare generosità. Diciamo che ho sempre sperato che le caselle a me più care fossero occupate dalle persone giuste».
Ora la casella a lei più cara è occupata dal ministro Lorenzin.
«Questo è un tranello. Le spiace se non abbocco?».
Si figuri. Però so che non ha gradito la sua posizione sul decesso post trapianto di cuore al San Camillo. Il ministro aveva parlato di «caso inaccettabile».
«Un ministro che usa termini da chiacchiera da bar su un argomento così la dice lunga sull'inadeguatezza di colei che dovrebbe dimostrare misura, senso di responsabilità e rispetto per chi rischia quotidianamente le coronarie facendo un mestiere difficile. Ma la colpa è di chi l'ha indicata e mantenuta in quel ruolo».
Almeno salva la Lorenzin sull'obbligo ai vaccini?
«Un movimento come quello dei No Vax prolifera dove la politica non mette da subito il veto su argomenti che non devono nemmeno essere argomento di discussione. Chi ha speculato sulla vita di malati disperati non doveva essere valutato da una commissione ministeriale ma messo in galera immediatamente».
Volente o nolente, lei ha sempre avuto mezza scarpa nella politica. Ma la politica l'ha mai tentata veramente?
«Ho la fortuna di fare un mestiere straordinario che continua ad appassionarmi, oggi la politica italiana è indecifrabile, vive di invettive, ma soprattutto si avverte la mancanza di competenza, preparazione e cultura. Io candidato? Spero si possano creare le condizioni per poter avere un ruolo nel suggerire le figure più competenti per le politiche sanitarie ed universitarie».
È stato mai tesserato o iscritto a qualche lista?
«No, mai. L'unica contesa elettorale cui ho partecipato è stata, qualche anno fa, per l'elezione a ruolo di rettore all'università del San Raffaele. Sono risultato il vincitore. però qualcuno ha sostenuto che una persona cosi vicina a Berlusconi non poteva ricoprire quel ruolo e quindi non se ne è fatto nulla. Meglio così ma l'arroganza e la presunzione di alcuni soloni post comunisti è inimmaginabile».
Com'era da ragazzo?
«Ero un buono, molto timido. Crescendo ho dovuto eliminare la timidezza ma credo di essere rimasto un buono. Da ragazzo al solo pensiero di entrare in ospedale mi sentivo mancare, ora ci passo la vita».
Qual è stata la soddisfazione più grande da medico?
«Ho creato un gruppo di lavoro che è in prima linea a livello internazionale per le terapie avanzate in ambito intensivistico cardiovascolare. È grazie a questo team che sono stati possibili alcuni miracoli».
Strano il termine miracolo pronunciato da un medico.
«Sì, ma siamo riusciti a riportare in vita Miki, il ragazzino che rimase intrappolato sott'acqua nel Navigli per 42 minuti. Quello è stato il nostro miracolo, forse il più bello ed il più forte emotivamente».
Ci racconti il suo percorso da studente di medicina.
«Ho avuto la fortuna di trovarmi al posto giusto nel momento giusto, l'ospedale San Raffaele quasi ai suoi albori, innamorarmi della terapia intensiva ed iniziare un percorso professionale importante».
A proposito di test di medicina. Non ha mai fatto segreto della sua contrarietà. Ma che fare?
«Non è pensabile che in una o due ore qualsiasi diplomato abbia le stesse chance da giocarsi e venga premiato sulla base di una preparazione nozionistica. Il sistema non è giusto. L'alternativa sarebbe valutare l'attitudine e selezionare i futuri medici strada facendo, con lo sbarramento, come fanno in Francia. Oppure procedere con una selezione progressiva in cui rimane solo il migliore e si premia la meritocrazia».
Stile X Factor?
«Una cosa del genere. Ma è impossibile in Italia. Se nel più prestigioso e severo liceo di Milano chi si diploma col massimo dei voti è solo il 10%, in certi licei al Sud il 90% degli studenti si diploma con cento centesimi. È un sistema malato. Ai ragazzi dobbiamo dire che l'università non è l'unico passepartout per entrare nel mondo del lavoro. Si possono fare mille altre cose nel migliore dei modi: pensi a Steve Jobs che la laurea l'ha conseguita solo ad honorem. Le ambizioni di una vita si giocano in un test: è terribile, mi indigno e continuerò a farlo. Io ad oggi non passerei le selezioni».
Lei ha studiato parecchi anni all'estero. Barcellona, Berlino, Londra Cosa ha portato a casa da quelle esperienze?
«Il metodo, la visione internazionale della ricerca, un impulso decisivo per costruire un percorso professionale di cui vado molto orgoglioso. Lo stesso metodo viene applicato al San Raffaele che ha una visione internazionale della medicina».
Oltre a Berlusconi, è stato a fianco a un'altra figura decisamente carismatica: Don Verzé. Com'era lavorarci assieme?
«Era un visionario, un uomo epocale. Ascoltava i suoi medici ma con il suo magnetismo faceva in modo di ricevere le risposte da lui auspicate. La sua idea l'aveva chiarissima. Amava dire che Dio era il suo azionista di maggioranza. In qualche modo credo lo pensasse veramente. Era molto severo, quando lo approcciavi avevi timore e rispetto. Alla fine era molto fragile ma fino all'ultimo respiro ha cercato di fare in modo che il San Raffaele si collocasse degnamente, anche quando aveva capito che era perso. Alle ultime riunioni, nonostante si stesse scatenando una bufera su di lui, era preoccupato per l'ospedale e non per se stesso».
Don Verzé e Berlusconi avevano il sogno dell'elisir di lunga vita. Ne hanno mai parlato con lei?
«Ne hanno parlato molto fra loro ma credo che quello che poteva sembrare un folle e utopistico traguardo diventerà presto un obbiettivo sul quale investire».
Quando Don Verzè morì, fu anche lei a gestire i rapporti con le sue seguaci, le Sigille. Impresa delicatissima, soprattutto dopo il crack finanziario dell'ospedale.
«Periodo complicato a cui seguì un grande smarrimento per la morte di Giuseppe Rotelli, che investì nell'ospedale. Oggi con le Sigille abbiamo rapporti di buon vicinato e siamo tornati ad essere un'imbattibile corazzata. Loro restano le grandi eredi di un patrimonio spirituale importante».
Però adesso in università e tra le corsie dell'ospedale si respira un'aria più laica.
«L'università laica lo è sempre stata. Don Verzè è sempre stato libero. Ha coniugato le scienze umanistiche con quelle scientifiche convinto di creare il pedigree del medico ideale. Ha colto anche in aree in cui sembrava strano cogliere: Massimo Cacciari e la sua facoltà di Filosofia ne sono la testimonianza».
I suoi figli seguiranno le sue orme?
«Federica, la più giovane, studia osteopatia. Ma gli altri hanno preso altre strade: Andrea è nel mondo della finanza, Tommaso è imprenditore nella ristorazione e conduce un ristorante in Brianza».
Tifoso del Genoa, è vero che ha proposto a Berlusconi di comprare la squadra dopo la vendita del Milan?
«Diciamo che ho sperato che questa pazzia potesse realizzarsi. Ma è stato lui stesso a consolarmi convincendomi che è impossibile per chi ha vinto tutto e di più con una squadra, innamorarsi di un'altra».
E anche innamorarsi di un'altra città è impossibile?
«Eh si, ammetto che Milano non mi è mai entrata nel cuore, la mia città è Genova e sogno di vederla rinascere. Due sono le cose che amo fare a Genova: andare allo stadio per ascoltare i cori della gradinata Nord e passeggiare tra i vicoli».
Calcio a parte, ama lo sport?
«Nel poco tempo libero che ho a disposizione cerco di tenermi in forma.
Negli ultimi due mesi ho tenuto una media di almeno 10 km di corsa al giorno. Poi il mio vero sogno sarebbe stato quello di vivere in montagna: da giovane arrampicavo, ho smesso per un grosso spavento durante un temporale in parete. Da allora ho la fobia dei fulmini».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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