Blair e Bush: apriamo a Iran e Siria sull’Irak

Giornata di sangue a Bagdad: oltre 50 morti

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Ieri l’altro per telefono, domani in videoconferenza: Tony Blair sembra intenzionato a farsi sentire il più presto possibile dagli americani impegnati nella revisione della politica verso l’Irak. Londra conferma e Washington non smentisce che il premier si è intrattenuto a lungo sabato con Bush. Nessun annuncio ufficiale sull’argomento, ma tacita conferma che è dell’Irak che si è soprattutto parlato. Il governo britannico ha fretta, anche perché sottoposto a crescenti pressioni dell’opinione pubblica, di potersi presentare di nuovo con qualche risultato, almeno verbale, della lunga e leale collaborazione con gli Stati Uniti.
Se Blair si è astenuto dal fare pubblica dichiarazione in proposito nelle scorse settimane o mesi è stato per «delicatezza», insomma per non contribuire in qualche modo alle difficoltà dell’uomo della Casa Bianca durante la campagna elettorale. Ma ora che questa si è conclusa Londra preme per far ripartire il dialogo anglo-americano e soprattutto per essere ascoltata nel dibattito che si sta aprendo negli Usa. Ecco perché, dopo aver parlato con Bush, il premier ha in programma per oggi un colloquio approfondito via satellite, con il nuovo ministro della Difesa Gates, che è anche membro della commissione insediata mesi fa con il compito appunto di fornire all’amministrazione nuove strategie e idee per scenari alternativi.
La posizione britannica dovrebbe essere piuttosto simile a quella attribuita al presidente della commissione stessa, l’ex ministro degli Esteri James Baker, di cui si sa che ha preso in esame soprattutto l’eventualità e le modalità di una «conferenza» sull’Irak estesa ai Paesi dell’area e dunque presumibilmente anche all’Iran e alla Siria, che finora sono stati tenuti fuori dalla Casa Bianca e dal Pentagono di Rumsfeld. E Blair ha fatto un passo in questa direzione chiedendo un’apertura a Siria e Iran. Il capo dello staff della Casa Bianca, John Bolten, non ha escluso ieri la possibilità di colloqui diretti con Damasco e Teheran.
Londra insisterebbe per una estensione dei poteri e dei doveri del governo iracheno - di cui ieri il premier Maliki ha chiesto un rimpasto - sia nella gestione dell’«ordine pubblico» in un Paese sconvolto dai disordini, sia nell’impegno pratico dell’impiego di truppe. Questo anche perché la Gran Bretagna sta considerando di dare inizio a un ritiro graduale delle sue truppe. Il richiamo riguarderebbe inizialmente la guarnigione di Bassora (3mila uomini) di cui Londra ha già deciso, d’accordo con gli americani, lo sgombero per passare il controllo all’esercito iracheno. Ma dove continua la violenza: ieri a Bagdad in vari attentati sono morte almeno 54 persone (30 uccise da un kamikaze in un centro di reclutamento della polizia), complessivamente 75 cadaveri sono stati ritrovati nella capitale e a Baquba, quattro soldati inglesi hanno perso la vita in uno scontro con i ribelli. L’inizio del ritiro è in calendario per marzo prossimo e potrebbe estendersi entro il 2007 ai 7500 militari stazionati nel Sud dell’Irak.
Qualcosa si muove anche a Washington. Due esponenti del Partito democratico che ricopriranno posizioni di rilievo nel Senato che entrerà in funzione in gennaio hanno manifestato l’urgenza che anche soldati americani comincino a lasciare l’Irak, possibilmente «entro sei mesi». L’auspicio viene da Carl Levin, destinato a presiedere la commissione Difesa del Senato, e da Joe Biden, che prenderà in mano la commissione Esteri. Levin aveva già presentato qualche settimana fa una proposta del genere, che fu respinta a grande maggioranza, ma egli è convinto che «le cose sono cambiate». Il calendario egli l’ha proposto in una intervista con la tv Abc. Biden non ha fatto date, ma ha esposto un piano più preciso: la convocazione di una conferenza internazionale sull’Irak con la presenza di Iran e Siria che porti a un accordo «simile a quello di Dayton che mise fine nel 1995 alla guerra in Bosnia».
Pare che lo stesso concetto sia contenuto nello studio preparato dalla commissione Baker e che Bush potrebbe accogliere, mentre è molto improbabile che egli accetti una data; anche perché i primi sondaggi post-elettorali indicano un certo timore della maggioranza degli americani che il nuovo Congresso democratico prenda «iniziative precipitose» che possano indebolire l’America nella «guerra al terrore». Le innovazioni dovrebbero insomma essere espresse con gradualità, ed è probabile che questa sia la tesi di Baker e di Gates, e che a questo punto il Dipartimento di Stato non si opporrebbe.

Anche se non è affatto sicuro che Condoleezza Rice appartenga davvero all’ala «moderata» in seno all’amministrazione, considerata in ascesa mentre starebbero perdendo terreno i «falchi» neoconservatori. Alcuni «tradizionalisti» hanno dei dubbi su di lei, a cominciare dall’ex presidente George Bush Senior, che l’avrebbe dichiarata qualche tempo fa «non all’altezza del compito».

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