Era il punto di riferimento di Anthony Bourdain e non lo avevo mai sentito nominare. Non me ne vergogno, conosco solo l'italiano e la lunga bibliografia di A.J. Liebling, poligrafo in voga negli Usa di metà Novecento, non poteva che essermi ignota. Ringrazio dunque Settecolori che adesso ha tradotto e pubblicato, anzi ammannito, il Liebling più stuzzicante: Tra i pasti. Un appetito per Parigi. Sono le avventure gastronomiche (e non solo) di un americano a Parigi nei ruggenti anni Venti, raccontate in prima battuta per il New Yorker di cui Liebling fu una colonna.
Avanzi riciclati di un secolo fa? Ingredienti freschi e gustosi, invece. Perché sono pagine scritte magnificamente e perché di edonismo c'è bisogno oggi più di allora. Impossibile non confrontarle con l'ultimissimo caso della scrittura gastronomica, la stroncatura del redivivo Gambero Rosso al nuovo ristorante romano di Niko Romito. Non entro nel merito, non discuto il contenuto sebbene sia piuttosto credibile: Romito come molti cuochi famosi pecca di hybris, probabilmente le critiche se le merita... Mi riferisco al tono, tutto saccenza e specialismo. Da troppo tempo, dal tempo appunto di Bourdain e, per quanto riguarda l'Italia, di Gianni Brera, non leggo gastronomi capaci di spaziare, divagare, divertire e divertirsi. Autori capaci di scrivere così: «La quantità di brandy contenuta in una madeleine non basterebbe a ubriacare un moscerino. Considerato quanto Proust scrisse grazie a uno stimolo così blando, è una vera perdita per l'umanità che non abbia avuto un appetito più vigoroso. Con una dozzina di ostriche dell'isola di Gardiners, una zuppa di vongole, una buona porzione di arselle, alcune capesante della baia, tre granchi dal guscio morbido saltati in padella, qualche pannocchia di mais appena raccolta, una sottile fetta di pesce spada di dimensioni generose, un paio di aragoste e un'anatra pechinese, avrebbe potuto scrivere un capolavoro». Eccolo qui Liebling, ecco la golosità sfrenata, il gusto per l'eccesso, l'umorismo. Il libro è farcito di aneddoti, nomi propri, persone e luoghi (mappa della Parigi che fu e che in parte ancora è), elenchi di piatti. Brevi capitoli che mettono fame, anche di vivere. Opera di un godereccio grande e grosso (insomma, grasso), malato di gotta e d'altro, morto a 59 anni perché «nessuna persona sana di mente può permettersi di rinunciare a piaceri debilitanti».
Era di mente sanissimo, simpatico e incontinente, luculliano e churchilliano (per aspetto e abitudini potatorie) A.J. Liebling, stesso cognome del padre di Roman Polanski, stesse radici ebraiche. Epicureo privo di complessi e velleità, soggiornava nella Parigi di Hemingway e Gertrude Stein, ma ai salotti letterari preferiva i ristoranti. Il suo mito non era un futuro Premio Nobel, ma un commediografo secondario, Yves Mirande, e non per le commedie, bensì per il gagliardo appetito. Non solo gastronomico: tra un pasto e l'altro c'è spazio per riferire sulla notevole carriera amatoria. Mirande stupiva i commensali divorando «un pranzo a base di prosciutto crudo di Bayonne e fichi freschi, salsiccia calda in crosta, filetti di luccio in una ricca e rosea sauce Nantua, cosciotto di agnello lardellato con acciughe, carciofi su un letto di foie gras e quattro o cinque tipi di formaggio, il tutto accompagnato da una buona bottiglia di Bordeaux e da una di champagne, dopo di che ordinava l'Armagnac...».
Avrei voluto conoscerli, scrittori del genere. E vorrei conoscerne ora: ma dove sono? Dove si nascondono i ghiottoni narratori? I libri da Strega e da classifica ostentano tristezze e malattie, l'appetito lo fanno passare.
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