Alberto Pasolini Zanelli
da Washington
A una settimana dal voto i grossi calibri dell’amministrazione Bush sparano tutti assieme: il vicepresidente Cheney, il ministro della Difesa Rumsfeld, il presidente in persona. È un tiro di sbarramento, difensivo contro l’avanzata democratica che i sondaggi continuano a prevedere, anche se è difficile che essa basti all’opposizione per conquistare il controllo di ambedue i rami del Congresso. Se i democratici guadagnano terreno è quasi unicamente a causa della guerra in Irak, e su questo tema i repubblicani sono al contrattacco. Ha dato il tono una volta di più Bush, che in due comizi in Tennessee e in Georgia ha ribadito la sua vecchia accusa: i democratici sono disfattisti, pericolosi per la sicurezza degli Stati Uniti. «Loro girano e rigirano le parole, ma quello che ripetono è il vecchio consiglio: ritirare le truppe dall’Irak, tagliare la corda». «Ma se questo accadesse - ripete il presidente -, se chi si oppone alla gestione del problema iracheno avrà la meglio nelle elezioni di martedì prossimo, a vincere saranno i terroristi. Se l’America lascia l’Irak prima che il lavoro sia concluso, l’America sarà una nazione sconfitta».
Non solo: secondo il vicepresidente Cheney l’attuale andamento delle operazioni militari in Irak è strettamente legato alla campagna elettorale per il Congresso: «Al Qaida e le altre organizzazioni responsabili dell’insurrezione armata vogliono spezzare la determinazione del popolo americano, indurci a scappare, dimostrare che questo Paese non ha il fegato per una battaglia prolungata». Cheney, che parlava davanti alla telecamera amica della Fox News, molto vicina ai repubblicani, ha lasciato subito dopo la parola a un altro «superfalco», Donald Rumsfeld, che ha allargato il bersaglio dal Partito democratico ai mass media, definiti responsabili della recente ondata di dubbi sull’impresa irachena: «Lamento amaramente che sui giornali compaiono troppo spesso troppe cattive notizie dall’Irak e troppo poco le notizie buone, quella sui progressi che stiamo facendo». Rumsfeld è disturbato in particolare dalla decisione del New York Times di cominciare a pubblicare, addirittura in prima pagina, le foto dei funerali dei caduti americani, che finora erano state tenute il più strettamente private possibile su richiesta della Casa Bianca.
La scelta ha coinciso con il balzo finale del numero dei morti americani, che in ottobre ha toccato quota 103, il più alto negli ultimi due anni. Rumsfeld ha anche annunciato che il Pentagono gestirà d’ora in poi direttamente la contabilità dei caduti, che ha contribuito all’ulteriore calo in popolarità della guerra e del presidente. L’ultimo sondaggio, condotto dalla Cnn, colloca l’indice di gradimento di Bush al 37%, due punti in meno rispetto alla settimana scorsa, sempre con la stessa motivazione: la diffusa sensazione che le cose in Irak vadano di male in peggio.
Il primo ministro di Bagdad, Al Maliki, due giorni dopo aver negato di essere «l’uomo degli americani» ha ordinato alle truppe irachene ai suoi ordini, ma anche a quelle Usa, di togliere i posti di blocco dalle strade di Bagdad. Se questa tendenza continuerà fino al giorno delle elezioni, le ripercussioni potranno essere gravi. Si diffonde infatti la «corsa» di molti candidati repubblicani a prendere le distanze dal presidente, o almeno dalla guerra in Irak. Perfino la senatrice texana Kate Hutchinson, una dei più fedeli sostenitori di Bush, lo invita a una revisione della strategia. Ciò accade con più frequenza negli Stati e nelle circoscrizioni in cui i candidati repubblicani appartengono all’ala moderata del partito, ma progressi dei candidati democratici vengono segnalati, oltre che dallo Stato-chiave dell’Ohio, anche dalla conservatrice Virginia, dove sarebbe passato in testa James Webb, un tenace conservatore che è stato ministro di Ronald Reagan e che ha cambiato fronte per l’opposizione alla guerra in Irak.
Ma Bush non si dà per vinto, e alcuni esperti concordano nel ritenere che non abbia ancora sparato tutte le sue cartucce. Ci sono alcuni segni di controtendenza, per esempio nello Stato-chiave del Tennessee, dove il candidato democratico è di colore. Senza il Tennessee, il partito di opposizione ha ben poche chance di rovesciare i rapporti di forza in Senato, anche se l’opinione pubblica nel suo complesso ritiene desiderabile un cambio di maggioranza. Il pericolo per Bush continua a essere tuttavia alla Camera, dove ai democratici basterebbe guadagnare 15 seggi.
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