Buren, costruttore di luoghi

Le sue strisce di tessuto sono il “modulo” con cui rielabora i siti in cui espone. Il progetto urbano nel Napoletano

Dal processo a Paolo Veronese alle disavventure di Caravaggio ai Salons des refusés, la storia dell’arte è storia di opere contestate e rifiutate al momento e vincenti poi nel tempo. «Ride bene chi ride ultimo» è il proverbio che il New York Times ha citato a proposito della personale del francese Daniel Buren al Guggenheim Museum di New York «The eye of the storm». Nel ’71 infatti, in occasione della collettiva Guggenheim International 1971, l’opera di Buren, Peinture-Sculpture, fu rimossa a sua insaputa su richiesta di alcuni artisti che ritenevano il loro lavoro compromesso dalla presenza del drappo di 66x32 piedi appeso al centro della grande rotonda, anche se altri artisti, tra i quali Merz, Ryman, Weiner, Lewitt, Dibbets, firmarono una petizione per reinstallare l’opera. Ora che il Guggenheim lo consacra, Buren ricostruisce la vicenda in un giornale, ironicamente intitolato «The Buren Times» che sostituisce il catalogo.
«Tutto il lavoro della critica d’arte, della storia dell’arte e dello stesso artista in generale consiste nel focalizzare l’interesse soltanto su quello che è rappresentato (o anche esposto) all’interno dell’oggetto stesso, senza badare un solo istante al luogo dove si svolge l’esposizione. Nel mio lavoro, invece, il luogo dell’esposizione e lo “strumento” del lavoro presentato formano un tutto inscindibile», ha detto Buren per il quale, pur utilizzando sempre lo stesso strumento, le bande bianche e colorate di un tessuto rigato trovato nel 1965 al Marché Saint-Pierre, non può esserci ripetizione perché nessun lavoro è stato già «esposto». Il fatto che il mezzo usato sia standard sottolinea con maggior forza la diversità del sito (interno o esterno, pubblico o privato, luogo deputato o no) indissolubilmente legato al mezzo nel comporre l’opera. Buren dichiara di vivere e lavorare in situ, nel rapporto con il contesto, che nel caso dello spazio pubblico è il luogo delle relazioni umane. In questo senso Buren è precursore di tendenze odierne dell’arte.
Al Guggenheim Buren è intervenuto tagliando il grande spazio circolare con una struttura che lascia accesso dal retro e l’ha ricoperta di specchi. Lo spettatore esce ed entra continuamente in tre diverse dimensioni: lo spazio reale del museo che non somiglia più a se stesso, quello virtuale dello specchio che riproduce l’illusione dell’edificio di Wright, e il backstage. E affinché dell’illusione vengano messi a nudo i meccanismi, l’artista ha posto sui bordi della balaustra l’attacco di strisce verdi che nel riflesso subiscono una leggera sfasatura. La sera dopo l’apertura una performance nel teatro del museo svela che quello di Buren è un discorso sulla pittura (in particolare sulla storia della pittura francese, si pensi ai papiers découpés di Matisse). Come in una partitura musicale, al comando dell’artista alcuni ragazzi posizionano le bande multicolori, il fondale-quadro muta dai toni caldi ai toni freddi, per poi essere lacerato come in un décollage.
E se dagli anni Ottanta si moltiplicano i progetti urbani di Buren, pochi sanno che in Italia c’è una sua opera permanente: il lavoro per la sede dell’Arin (Azienda risorse idriche di Napoli), trasferita dal palazzo settecentesco alla degradata periferia di Ponticelli, e la fontana ideata per il crocevia antistante, su proposta degli Incontri internazionali d’arte che hanno curato anche una pubblicazione. Una parola che Buren ama è «interdipendenza», quella tra l’opera e il luogo in cui viene montata e mostrata, mentre non ama il termine «appropriazione» che è usato spesso per parlare del suo lavoro: «per esempio, il mio lavoro nel cortile d’onore del Palais-Royal, a Parigi, non si è appropriato del luogo, ma piuttosto lo ha rivelato, trasformato e interrogato; trasfigurato, se vogliamo».
Anche in questo caso Buren interroga il sito, lo ascolta e lo trasforma: la fontana segna la rotatoria del traffico, fa mostra dell’acqua come patrimonio naturale, è strutturata a cerchi concentrici come in un liquido gorgo e la stessa forma riverbera sulla facciata del palazzo. «La prima idea relativa all’edificio e alla fontana... nacque dal movimento delle onde concentriche prodotte da una goccia d’acqua che cade in una pozzanghera. In un mondo nero offrire qualcosa di non nero, anzi di vivacemente colorato è una forma di resistenza politica: resistere a un clima e a un contesto molto pessimisti» dice Buren. «Il tema della goccia, e quindi dell’acqua, si espande sulla intera facciata frontale e continua sui corpi laterali; la fontana ne riprende la forma e i colori, e i riflessi dell’edificio nell’acqua della vasca rafforzano il legame tra l’uno e l’altra.

La fontana, poi, con il suo zampillo, indica a chi arriva da lontano che lì c’è la casa dell’acqua. Una casa viva come l’acqua è viva».Una nuova installazione permanente di Buren, La Cabane éclatée aux 4 salles, sarà inaugurata l’11 giugno nel Pistoiese alla Fattoria di Celle (Santomato di Pistoia).

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