Bush alla ricerca della pace perduta in Irak

Sulla via di Damasco? No, solamente di Amman. Provenendo dalla direzione più improbabile: i Paesi Baltici, dove George Bush ha affrontato un problema immediato, quello dell’Afghanistan, e uno a medio termine, l’allargamento della Nato. Agli alleati egli ha chiesto di aumentare la presenza militare a Kabul.
E qui ritorna in gioco l’attualità più immediata e più angosciosa. Il principale argomento che i governi europei criticati adducono ufficiosamente è che in Afghanistan c’è carenza, in primo luogo, di truppe americane, che sono di gran lunga le meglio armate e le più capaci di azioni strategiche. Ma di soldati Usa ce ne sono 30mila a Kabul e dintorni, 140mila dalle parti di Bagdad. Nessuno ha osato chiedere a Bush di trasferirne, anche se riaffiora (soprattutto negli Stati Uniti) la vecchia polemica su un eccessivo e troppo rapido storno di energie militari dall’Afghanistan all’Irak, lasciando la missione incompiuta.
Se nessuno osa chiederlo è perché la priorità è più che mai quella di Bagdad. Tanto è vero che Bush dalle rive del Baltico sente il bisogno di piombare nel cuore del Medio Oriente per un «vertice» singolare: per contatti più o meno diretti con i due Paesi che fino a poche settimane fa erano esclusi dalle consultazioni sull’Irak in quanto ritenuti «parte del problema, non della soluzione». Lunedì il presidente iracheno Talabani era a colloquio con il presidente iraniano Ahmadinejad, che gli ha impartito «consigli», il primo dei quali, prevedibilmente, è il rimpatrio delle truppe Usa, definite, loro stavolta, come «parte del problema, non della soluzione». La stessa tesi è sostenuta dai siriani, altri «fuorilegge» ripescati, forse provvisoriamente, come interlocutori.
Di fronte a queste innegabili innovazioni nella politica di Washington, Bush sente comprensibilmente la necessità di ribadire che le sue grandi linee non cambiano e che, per prima cosa, l’America non se ne andrà dall’Irak «finché la missione non sarà compiuta». È una costante della sua politica che non poteva non essere riaffermata proprio alla vigilia della sua «puntata» nel Medio Oriente; che però è accompagnata da una relativa novità: l’identificazione del nemico principale e del principale responsabile delle attuali tragiche convulsioni irachene: secondo Bush non sono le «sette» sciite e sunnite, bensì Al Qaida. Il peggioramento della situazione in Irak è dovuto, ha rivelato o spiegato Bush, a una nuova fase dell’offensiva dell’organizzazione terroristica diretta o ispirata da Bin Laden e che sarebbe in corso dal mese di febbraio.
Il piano sarebbe stato formulato dal luogotenente in Irak di Al Qaida, Abu Musab al-Zarqawi, prima che questi venisse ucciso, nel giugno scorso, in un attacco aereo americano. La «strategia» gli sarebbe sopravvissuta: spostare il baricentro dell’attività terroristica dai bersagli militari a quelli civili, anzi religiosi, in modo da provocare l’esplosione della tensione fra sciiti e sunniti.

Implicito in questo aggiustamento di tiro il ribadito diniego che in Irak sia in corso una «guerra civile»; interpretazione discussa, ma coerente con l’impegno che Bush prese un mese fa: di non «tenere le truppe americane esposte al tiro incrociato». Ma proprio da ambienti militari di Washington arriva un’interpretazione diversa: all’offensiva sarebbero soprattutto milizie sciite armate dall’Iran e addestrate da Hezbollah nel Libano.

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