Bush rilancia sull’Irak: "Datemi tempo"

Datemi tempo. La strategia americana in Irak incontra serie difficoltà ma può ancora funzionare. Se abbiamo mandato i rinforzi è per agevolare, appena sarà possibile, il ritorno a casa di tutti i nostri soldati. Così Bush si difende e contrattacca

Bush rilancia sull’Irak: "Datemi tempo"

Datemi tempo. La strategia americana in Irak incontra serie difficoltà ma può ancora funzionare. Se abbiamo mandato i rinforzi è per agevolare, appena sarà possibile, il ritorno a casa di tutti i nostri soldati. Così Bush si difende e contrattacca. Ha ripetuto queste cose in un discorso in pubblico, a Cleveland, in Ohio, mentre gli attacchi si intensificano, la pressione monta, ma arrivano in suo soccorso voci autorevoli, dal senatore McCain a Henry Kissinger. Il primo, rientrato da una nuova visita a Bagdad senza aver cambiato idea (come qualcuno temeva anche alla Casa Bianca) ha invitato i colleghi a «dare tempo» alla strategia della Casa Bianca, anche perché «qualche segno di progresso si vede». Il secondo ha pubblicato un lungo saggio sul New York Times in cui non minimizza la gravità del momento, riconosce il «disincanto» del popolo americano ma ammonisce che «un ritiro precipitoso delle truppe sarebbe un disastro. Non porrebbe fine alla guerra ma la estenderebbe ad altre aree, come il Libano, la Giordania, l’Arabia Saudita». L’America, dicono all’unisono Bush e Kissinger «non può dare prova di impotenza». Occorrono però strategie più ampie, una a largo raggio e una più immediata, che a parere di molti potrebbe consistere nell’adozione delle raccomandazioni del «gruppo di studio» bipartitico sull’Irak, finora ignorate dal governo Bush. Dipenderà anche dal giudizio che si può dare sui progressi finora compiuti, militari e soprattutto politici. Un bilancio lo si dovrebbe poter trarre fra qualche mese.
Il 15 settembre il comandante delle truppe Usa in Irak, generale David Petraeus, presenterà il suo rapporto e si sa già che dirà che per piegare la «insurrezione» ci vorranno «molti anni». Ma la pressione politica è troppa per aspettare quella data e diventerà probabilmente decisivo un appuntamento anticipato: il rapporto dell’esecutivo al Congresso il 15 luglio, richiesto dagli accordi sugli stanziamenti militari. Troppo presto per Bush, troppo tardi per l’opposizione, che lancia ora assalti a scadenze ancora più immediate. Già in questa settimana il Congresso esaminerà un’ondata di proposte, dissimili ma non divergenti e tutte ormai bipartitiche a causa del deflusso di parlamentari repubblicani, soprattutto in Senato, che versa in una posizione critica. Il primo e più urgente è una risoluzione presentata dal senatore repubblicano Chuck Hagel e dal democratico James Webb (già viceministro della Difesa con Reagan): «Per ogni giorno che un soldato è in Irak deve passarne almeno uno a casa», il che renderebbe molto più difficile l’invio dei rinforzi. Webb l’ha esposto in termini di drammatica impazienza: «Siamo nel quinto anno di guerra, il castello di carte sta crollando e a pagare sono sempre i soldati e i marine mentre il resto del Paese passa il tempo in chiacchiere». La risoluzione dovrebbe avere la maggioranza in Senato e, per la prima volta, avvicinarsi al livello di 60 voti su 100 che gli darebbe valore esecutivo.
Minori possibilità ha il documento presentato dal senatore democratico Carl Levin. Vorrebbe l’inizio immediato del ritiro entro quattro mesi dopo la sua eventuale approvazione. Un altro testo ancora è stato presentato dall’ultimo «ribelle» repubblicano, il senatore Alexander Lamar, che chiede che le truppe Usa in Irak, si astengano d’ora in poi dal combattere e si concentrino nell’addestramento delle forze irachene. Fra i sostenitori un altro senatore che ha appena abbandonato Bush, Olympia Snowe, con una motivazione più emotiva che strategica: «Siamo al bivio fra la speranza e la realtà. Dobbiamo scegliere la realtà e prima o poi deve convincersene anche il presidente». Reso baldanzoso dalla continuata erosione nei ranghi del partito di Bush, il leader della maggioranza democratica in Senato, Harry Reid, ha ieri invitato i repubblicani a cambiare campo. «Il momento è giunto. Che vengano con noi li accoglieremo a braccia aperte. Non possiamo aspettare». Una parte consistente dell’opinione pubblica sembra pensarla come lui. L’ultimo sondaggio conferma che oltre il 70 per cento degli americani in questo momento sono a favore del ritiro di quasi tutte le truppe dall’Irak entro l’aprile prossimo. È più una spinta emotiva che non una valutazione realistica, ma si fonde con una sempre più consistente maggioranza (per la prima volta al di sopra del 60 per cento) che disapprova l’intera «avventura» in Irak anche se nessuno fra i critici di Bush ha trovato una risposta ai quesiti sul dopo. I «realisti» alla Kissinger puntano su una continuata presenza militare in basi strategiche senza più un impegno negli affari interni dell’Irak.

Altri «realisti» sono convinti del contrario: «Più basi installiamo laggiù - dice Richard Murphy, vicesegretario di Stato per il Medio Oriente nel governo Reagan - più rafforziamo sospetti e ostilità in quella parte del mondo».
Alberto Pasolini Zanelli

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