È il mistero dei misteri italiani. Il nodo inestricabile di tutte le trame - rosse e nere - del Paese. Il lato più oscuro della lunga ombra complottista che si estende sulla vita e sulla politica nazionale del secondo dopoguerra, da Portella della Ginestra alla Loggia P2. Di cosa parliamo? Facile: del «caso Moro». Per alcuni è una faccenda dolorosissima e complicata ma ormai risolta, su cui si è detto molto e si è taciuto anche di più, ma a proposito della quale oggi non c'è nulla di nuovo da sapere: archiviata nell'armadio del nostro passato scomodo. Per altri invece è la «grande madre» di tutti i gialli italiani, il punto di non ritorno della connivenza tra il Potere istituzionali e gruppi di potere eversivi. E che in effetti rimanga - ancora - qualcosa di poco chiaro, lo fa sospettare il fatto che gli unici concordi nel confermare la versione ufficiale siano, non a caso, il leader del gruppo di brigatisti che gestì il sequestro e l'uomo che in quel momento era ministro dell'Interno. Mario Moretti e Francesco Cossiga.
Chi al contrario non è minimamente d'accordo con la «verità processuale» è Sergio Flamigni - già senatore del PCI, membro delle Commissioni Parlamentari d'inchiesta sul caso Moro, sulla Loggia P2 e Antimafia - che di Moro è probabilmente il più importante studioso, avendo vissuto la vicenda direttamente dai banchi del Parlamento, potendo consultare tutte le carte riguardanti le inchieste sul rapimento e avendo scritto sulla vicenda diversi libri. L'ultimo dei quali, appena uscito, s'intitola «La prigione fantasma. I covo di via Montalcini e il delitto Moro» (Kaos Edizioni): è la summa di tutti i dubbi "partoriti" da più parti in questi trenta e più anni che ci separano dal «caso», sul covo delle Br di via Montalcini, che secondo la ricostruzione ufficiale sarebbe stata la prigione di Moro per tutti i 55 giorni della drammatica epopea. Un enigma dentro l'enigma.
Accusato dalla recente storiografia revisionista di essere un «dietrologo», ossia qualcuno che vuole a tutti i costi vedere un mistero dove non c'è, Flamigni porta alla sua tesi elementi difficilmente contestabili. Fu lui infatti a insistere sulla probabile esistenza di carte non trovate nella prima perquisizione del covo milanese di via Monte Nevoso così come sull'esistenza di un quarto «carceriere» di Moro. Due ipotesi poi dimostrate esatte dai fatti, smentendo i tanti che già allora sostenevano che del caso Moro non c'era più nulla da chiarire.
Nel libro «La prigione fantasma» Flamigni ricostruisce le vicende che hanno riguardato (prima, durante e dopo il delitto Moro) l'appartamento-covo delle Brigate rosse di via Montalcini a Roma, intestato alla brigatista Anna Laura Braghetti, scandite da incongruenze, contraddizioni e aspetti rimasti oscuri. Anche attraverso documenti e testimonianze, Flamigni dimostra che quella di via Montalcini non fu affatto la prigione del presidente Dc (se non, forse, per un breve periodo).
Per Alfredo Carlo Moro, il magistrato fratello di Aldo, qualcosa di molto grave obbliga i brigatisti ad arroccarsi su una versione insostenibile. «Forse perché - si chiede il fratello di Moro - le Brigate rosse avevano un altro livello rimasto del tutto sconosciuto e che deve essere celato anche oggi per le implicanze che la rivelazione avrebbe? Forse perché le Br sono state strumentalizzate da altri gruppi o poteri interessati al sequestro e all'uccisione dell'ostaggio?».
Andando alla caccia del luogo - o più probabilmente i luoghi - dove il presidente della Democrazia cristiana venne tenuto prigioniero dal 16 marzo al 9 maggio 1978, Flamigni ipotizza che dopo anni di silenzi e reticenze, alcuni ex terroristi, d'intesa con settori della Dc, e in cambio di benefici penitenziari, abbiano confezionato una «verità ufficiale» sulla strage di via Fani, sul sequestro e sulla «soluzioen finale» che portò all'assassinio dell'uomo politico: secondo tale versione dei fatti, avallata da diversi personaggi coinvolti nella vicenda (il giudice Ferdinando Imposimato, il pentito Antonio Savasta, il duo Morucci-Faranda...
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