Alza entrambe le braccia verso il cielo, stremato, ma con un sorriso che si estende ampio. Perché lo sa benissimo che ha appena rimesso in pari i conti con il destino. Per carità, non è stata questione di karma: Stefano Baldini quell'oro olimpico ad Atene 2004 se l'è andato a prendere con quattro anni di sofferenza, sudore e dedizione.
Alle Olimpiadi di Sidney aveva visto infragersi quel sogno così a lungo accarezzato. Gara nemmeno terminata, frustrazione a fiotti, che avrebbe potuto trasformarsi in depressione. Invece l'atleta emiliano aveva saputo incassare il colpo, ricominciando lentamente a respirare. E mettendo un passo davanti all'altro. Non c'era tempo per compatirsi. C'erano le prossime Olimpiadi da preparare ancora meglio.
Erano seguiti quindi quattro lunghi anni di totale devozione alla causa. Un periodo enorme, a tratti sfibrante, perché ti sembra di non scorgere mai il traguardo. Baldini però ce l'aveva ben scolpito nella testa. Sarebbe andato oltre i suoi limiti. Avrebbe interrotto lo strapotere africano nella maratona.
Infatti, poco prima che scoccasse quel torrido 29 agosto allo stadio Panathinaiko di Atene, era apparso sicuro quasi ai limiti della strafottenza. Non era quello, ovviamente, il sentimento che voleva trasmettere. C'entrava di più il fatto che sapeva di esserci arrivato in una forma spaziale, e con un debito con la sorte gigantesco, da incassare a tutti i costi.
I bookmakers restavano scettici. Gli avversari erano di calibro assoluto e non sembravano esserci margini per compiere l'impresa. Anche soltanto andare a medaglia sarebbe stato complesso. C'erano il kenyota Tergat e tutta la batteria degli altri africani. C'era il portentoso brasiliano Vanderlei De Lima. E pure lo statunitense Mebrahtom Keflezighi. Spuntarla sembrava una missione intricata.
Baldini però non era arrivato fino a lì armato soltanto di moltissimo allenamento e tanta forza di volontà. Aveva una strategia acuminata e l'applicò fin da subito. Il piano era rimanere nelle primissime posizioni fino a metà gara, senza forzare. Poi provare a scremare, giocandosela con i due-tre che avrebbero retto il colpo.
Tra questi c'era De Lima, che avrebbe perso - va detto - un po' di concentrazione all'ingresso di un folle che aveva cercato di aggredirlo intorno al km 35. E l'americano di origini eritree Keflezighi, una spina nel fianco. Stefano, una volta intravisti gli ultimi chilometri, avrebbe tuttavia cambiato passo. Accelerazione costante e irrefrenabile. Spedito verso il medagliere. Così si era liberato dell'americano ed era andato a riprendersi De Lima. Una rimonta, avevano ricordato i telecronisti quel giorno, degna di Bordin a Seoul '88.
E poi via, lasciando tutti indietro, senza che nessuno lo potesse raggiungere più.
Al traguardo sollevava quelle braccia affusolate contro il cielo. Oro olimpico nella maratona. Il secondo europeo a riuscirci in trent'anni. Oggi che ne sono passati 20, quel ricordo produce ancora uno scintillio intenso. Che il destino, certe volte, è una corsa lunga da correggere.
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