È mattina presto, ma fuori si spande già un confortante tepore. Le assi della veranda scricchiolano docilmente. L’alba si distende placida nella lussureggiante San Marco Castellabate, campagna amena del salernitano. Si mette a sedere che ancora indossa il pigiama e contempla un’ultima volta quel panorama. È riuscito a non svegliare la moglie Marisa, una hostess che aveva conosciuto l’anno dello scudetto. Fuori è da qualche ora il 30 maggio 1994: esattamente 10 anni dopo quella partita. Forse una pura coincidenza, forse no. Magari ripercorre mentalmente quel match per qualche istante. Poi Agostino Di Bartolomei preme il grilletto.
Il capitano imperturbabile di una Roma magica
Aveva lo scudetto cucito dul petto, Diba. L’avevano vinto guidati dal genio svedese Nils Liedholm. Al fianco di Pruzzo, Falcao, Bruno Conti, Ancelotti e via andando. Una comitiva formidabile. Ne era diventato il capitano. Sapeva essere ruvido, ma possedeva una tecnica nitida e trovava spesso il gol con le bordate da fuori, meglio se su punizione. Più di tutto, però, gli avevano consegnato la fascia per via delle sue doti morali. Era un leader silenzioso, Agostino. Inflessibile, coraggioso, imperturbabile. Gli bastava uno sguardo per trasmetterti tutti questi sentimenti. Portava il mento alto perché si sentiva il simbolo di un popolo che amava e dal quale era ricambiato. Così non c’era partita che potesse infondergli agitazione. Nemmeno una finale di coppa dei campioni. Lui non si disuniva mai.
Quella finale maledetta
L’aria tiepida di una sera che anticipa l’estate. Trenta maggio 1984. Stadio Olimpico di Roma. Settantamila cuori frementi. Un’intera città paralizzata dalla tensione che potrebbe anticipare la gioia più grande o infliggere una delusione pazzesca. Perfino i cugini laziali la guardano, anche solo per gufare. Una finale di coppa dei Campioni giocata in casa è già il frutto di un inedito allineamento celeste. Se poi batti il Liverpool di Ian Rush, la storia che viene a comporsi sfuma in felicità tellurica. Diba scende in campo con la dieci sulle spalle. Lo sguardo è fermo. L’espressione risoluta. Anche se gli rimbalza dentro tutto il peso di quelle migliaia di anime appese alla squadra. Ci sarebbero tutte le premesse per una serata memorabile. Ma è proprio quando ti sembra tutto apparecchiato che la storia si diverte a sottrarti lo sgabello. La Roma perde ai rigori. Un pugno alla bocca dello stomaco che non si riassorbe.
La vita dopo il calcio, un dribbling fallito
Delusioni, certo, ma anche botte di felicità abbacinante. La carriera di un calciatore del suo lignaggio è un ascensore emotivo rimasto incantato. Ti passa frullati di vita elettrica, da sorseggiare avidamente. Quando però il sipario si abbassa, la musica rallenta fino a sfumare in sottofondo e le luci si dissolvono gradualmente, la prospettiva cambia d’un tratto. È come ritrovarsi bloccati tra un piano e l’altro. Non sei al primo e nemmeno al secondo. Sei fermo esattamente nel mezzo, costretto in un guado che fatichi a riconoscere. Quella vita lì non la senti più tua. Troppa la distanza tra quel che c’è e quello che vorresti. Troppo intricato il dribbling che consente di passare da star a uomo comune senza pagare un gigantesco dazio. Storia che ci aderisce addosso da quando è iniziato il mondo. Diba sembra l’Aiace di Sofocle. Meglio la morte di una non vita.
Un dramma lungo dieci anni
Così è di nuovo il 30 maggio, ma del 1994. Diba apre uno dei suoi cassetti. Estrae una Smith & Wesson calibro 38 e sfila lentamente verso la veranda. D’un tratto tutta quella pressione che aveva sempre respinto gli collassa all’interno come un orrendo buco nero. Una voragine incolmabile. L’unico sollievo coincide con la scelta più drammatica. Punta la canna fredda contro il petto, all’altezza del cuore. Socchiude le palpebre. Preme il grilletto. Il colpo risuona sordo nella campagna, facendo levare gruppi di uccelli. Marisa si sveglia di scatto. La Roma giallorossa patisce una ferita insanabile. L’intero paese è atterito.
Ci si inizia a porre il problema della tenuta psicologica degli ex calciatori, privilegiati fragili. Agostino intanto non c’è più. Troppo distante, quel presente, dai sogni abitati poco prima. Meglio non essere che vivere senza riconoscersi.
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