Sono completamente pietrificati. Attoniti. Avvolti dentro la patina velenosa di un silenzio che trafigge. E chi se lo poteva aspettare, anche soltanto lontanamente, del resto? L'Olimpico era un catino che ribolliva entusiasmo fino a pochi istanti fa. Il sogno dello scudetto pareva una meta raggiungibile, perché la squadra ci aveva già piazzato le mani sopra. Bastava battere il Lecce già retrocesso in casa, quel 20 aprile 1986, e il titolo sarebbe stato ad un passo.
Il gruppo aveva condotto un lungo duello contro la Juve di Trapattoni e si era messa nelle condizioni ideali per spuntarla. Era, quella, la Roma del passionale presidente Dino Viola, del mister carioca Angelo Sormani, del direttore tecnico Sven Goran Eriksson. Era la squadra dei bomber Pruzzo e Graziani. Di Cerezo e di capitan Ancelotti in mezzo al campo. Del nuovo acquisto Boniek. La qualità sgorgava da ogni poro e i tifosi, adesso, potevano sfregarsi le mani.
Lo stadio freme e deflagra di gioia quando Ciccio Graziani gira di testa nello specchio la rete del vantaggio: è l'alba del match, soltanto il settimo minuto, e tutto sembra ancora possibile. Poi, però, qualcosa inizia come ad avvitarsi nel verso sbagliato. I giallorossi si sentono in controllo e rallentano eccessivamente il ritmo. In campo il Lecce, che non ha più obiettivi, inizia a lacerare gli spazi. Dagli spalti si leva qualche mugugno, ma nulla di più. Poi Di Chiara trova il pareggio, alla mezz'ora. E prima che si vada al riposo, l'argentino Barbas piazza l'impensabile 1-2 su calcio di rigore. Pubblico ammutolito, ma non ancora affranto.
Per deprimersi definitivamente è sufficiente attendere soltanto sette minuti. Ancora Barbas che si infila nella sciagurata retroguardia della Lupa e compie l'irriverente 1-3 per i giallorossi sì, ma quelli venuti su dal Salento. Ora la modalità psicodramma è attivata, anche perché la Juventus è in vantaggio sul Milan nello scontro che si svolge in parallelo, grazie ad un gol di Laudrup. Una cappa di sentimenti tetri si staglia sopra l'Olimpico. La squadra preme, ma non riesce a sfondare, preda di una costernazione interiore che si tramuta in flaccidità agonistica. Pare stremata, quando dovrebbe sputare cuore e polmoni sul campo. Pruzzo accorcia nel finale: 2-3, ma è troppo tardi. La Juve passa avanti in classifica e la Roma vede sfilarsi tra le dita lo scudetto. L'intero stadio è una pozza di sdegno. Viene assalito dalla tristezza più profonda. Non c'è ancora la matematica, ma ormai l'harakiri è certificato.
La Juve batterà, una settimana più tardi, quello stesso Lecce: 3-2 sul loro campo.
Pruzzo e i suoi compagni, invece, si smarriranno definitivamente ad un passo dal traguardo, perdendo anche contro il Como, dopo un gol preso al primo minuto. Perdere fa sempre sanguinare, certo. Così però è un fiotto che getta ancora ininterrotto dai cuori giallorossi.
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