Carpaccio e il gusto sottile di trovare il sogno nella realtà

In dipinti e disegni il serenissimo maestro condensa cronaca e fantasia. Ispirando il realismo magico del '900

Carpaccio e il gusto sottile di trovare il sogno nella realtà

C'è un piccolo quadro che da solo vale la visita della mostra «Vittore Carpaccio. Dipinti e disegni» (Palazzo Ducale, fino al 18 giugno, catalogo Marsilio Arte, pagg. 339, euro 56), la più completa dopo la grande antologica sempre veneziana di ormai sessant'anni fa, e che raccoglie quadri da un po' tutti i musei del mondo. Quello in questione proviene dal Paul Getty Museum di Los Angeles, Caccia in valle è il suo nome, e dietro la sua realizzazione c'è una storia che vale la pena di raccontare.

Diciamo subito che con esso Vittore Carpaccio ci dà le coordinate naturalistiche, venatorie, ludiche della laguna nel suo tempo, la fine del Quattrocento. Sotto un cielo grigio dove volano a stormi uccelli migratori, lo specchio d'acqua rimanda barche, rematori, servitori di colore, arcieri, cormorani addestrati. Sullo sfondo ci sono i casoni ricoperti di canne, le cavàne dove ormeggiare, un airone solitario in volo, gli sbarramenti che chiudono le valli da pesca, i ghebi che si incuneano fra le barene, le terre emerse intorno ai casoni che la marea ricoprirà. Nell'acqua si distinguono i lunghi colli o le estremità posteriori degli uccelli sorpresi nella loro pesca mattutina, qualche preda, oche, folaghe, è sul bordo delle imbarcazioni, così come qualche richiamo vivo o inanimato. L'acqua è immobile, non fosse per lo sciabordio dei remi, l'atmosfera è solenne e barbarica, ma rispetto alla coeva pittura fiamminga di genere, è meno veristica e più immaginativa, un arazzo fantastico e non una natura morta.

In Caccia in valle è comunque raffigurato lo stesso rituale che ancora due secoli dopo Pietro Longhi condenserà in una serie di quadri che, fortunatamente per noi italiani, si possono vedere alla Fondazione Querini Stampalia. Ecco «l'arrivo del signore», preparazione dei fucili, che hanno preso il posto degli archi e delle palline di argilla usate come frecce, scarico del materiale con famigli e dipendenti che lo accolgono, sistemano e verificano le armi, mettono a posto vasellame e provviste. Ecco «il sorteggio dei cacciatori», intorno a un tavolo, pipe accese e grappe versate, l'assegnazione dei posti-caccia. Ecco la partenza, con il suo corteo di zimbelli da sistemare come esca, e infine «la posta in botte»: un cielo che albeggia, un tiratore che punta, le prede che galleggiano in attesa di essere raccolte, l'accompagnatore che prepara e predispone le bocche da fuoco.

Ancora lo spazio di un paio di secoli e ciò che visivamente Carpaccio e Longhi avevano avuto di fronte lo ritroverai nelle pagine hemingwayane di Di là dal fiume e tra gli alberi, nel Comisso di Veneto felice e in quel romanzo sorprendente nella sua sgradevolezza esistenziale che è L'airone, di Giorgio Bassani, dove più che la laguna è il senso di spossatezza, di abbandono e di resa a tenere banco. Partito per andare a caccia, l'avvocato Limentani alla fine non sparerà ad altri che a sé stesso.

Anche la Caccia in valle di Carpaccio ha però il suo non detto, ovvero l'altra faccia mondana illustrata da Longhi, un'altra faccia però al femminile di ciò che al maschile ci avrebbero poi raccontato anche gli scrittori novecenteschi prima citati. In origine, infatti, sulla medesima tavola che riproduceva la scena venatoria, ce n'era una seconda, collocata immediatamente sotto e intitolata Due dame. Le due scene risultano visivamente unite sia dal giglio che esce dal vaso appoggiato a sinistra sul parapetto di quest'ultima e che occhieggia dal margine sempre a sinistra della scena di caccia, sia dallo sfondo verde della porzione con le due dame che rappresenta la continuazione delle acque della laguna. In origine, insomma, c'era un unico pannello avente la funzione di decorare i battenti di una porta a soffietto, che verosimilmente introduceva allo «studiolo di un gentiluomo», uno spazio intimo, dunque, dove la caccia e l'amore avessero la loro ragion d'essere.

Quando e perché il pannello sia stato segato a metà, non lo sappiamo. Quel che è certo, stando a un inventario settecentesco della collezione Algarotti, è che già allora Caccia in valle figurava in solitaria e che a operare la divisione sia stato lo stesso Francesco Algarotti, il quale infatti attribuisce la tela, non firmata, a Carpaccio, grazie al fatto che la firma dello stesso era presente solo sulle Due dame, attribuzione altrimenti all'epoca, stando alla critica, impossibile da definire.

Ma chi sono le due bionde figure femminili raffigurate? A lungo si è pensato che si trattasse di una coppia di cortigiane, apatiche e annoiate, con abiti e acconciature vistose, circondate da animali domestici, ma anche da vasi di mirto e da tortore, gli uni e le altre associabili a Venere, dea dell'amore... Era un'interpretazione convincente se presa a sé, ma una volta che i due dipinti sono letti nel loro insieme, gli abiti al femminile rimandano a quelli maschili dei signori intenti alla caccia e lì dove si leggeva la noia e l'apatia si può più verosimilmente leggere l'attesa paziente, di due spose caste e fedeli, del ritorno a casa dei mariti dopo una giornata di svago in laguna. Questa interpretazione è avvalorata dal fatto che quelle due teste femminili si possono ritrovare adattate per le coeve decorazioni di vetri di Murano, ciotole e coppe intese quali doni di fidanzamento o di nozze. In mostra è presente, proveniente dal Kunsthistoriches Museum di Vienna, un loro esemplare superstite.

Lasciando da parte ogni altra allusione simbolica, nel suo insieme Caccia in valle/Due dame, per quanto appartenga a un Carpaccio non ancora trentenne, rientra perfettamente nel suo universo pittorico dove, come osserverà uno scrittore ottocentesco quale Henry James, «l'attenzione per la vita dell'uomo in generale» si univa a un'immagine ideale della città marinara per eccellenza, con i palazzi ricoperti di marmo, le navi, l'andirivieni della gente, il luccichio della luce solare e insieme il tono metallico della laguna. Del resto, come puntualizza il curatore della mostra, Peter Humfrey, Carpaccio era un vero veneziano, figlio di un mercante di pellami (Scarpaza era il nome originale, dal pittore latinizzato in Carpatius...) e in quarant'anni di carriera lasciò raramente la città: i suoi committenti erano suoi concittadini.

Tornando a Caccia in valle/Due dame, è da sottolineare che nella grande mostra veneziana del 1963 esso non era esposto, come del resto molte altre opere di grande valore che fanno dell'allestimento odierno un unicum da non perdere. Va anche detto che fu allora, quando Venezia divenne in pratica oggetto della «Carpacciomania», che Giuseppe Cipriani, l'inventore dell'Harry's Bar, battezzò con il nome del pittore quel piatto composto da carne di manzo o di vitello cruda, tagliata in modo sottile, servita con limone, olio di oliva e scaglie di grana, e che nel color vivo della carne richiamava i caratteristici rossi de suoi teleri, gli stessi che si possono ritrovare nel ciclo della vita di Sant'Orsola, alle Gallerie dell'Accademia, o nelle storie di san Giorgio e san Girolamo, nella Scuola degli Schiavoni.

Per mancanza di spazio, non è possibile soffermarsi sui tanti altri capolavori presenti nell'esposizione. Quello che emerge dal loro insieme fa di Carpaccio un mirabile cronista contemporaneo della storia veneziana, uno dei più affidabili testimoni della vita e dei costumi del suo tempo, e insieme però un incredibile tessitore di sogni e fantasie, una naturalezza raffinata e pura che nel Novecento servirà da modello per gran parte del realismo magico italiano.

Quel realismo magico che fa di Caccia in valle una sorta di sogno stilizzato dove le figure umane si muovono su barche che sembrano gondole come in un balletto e la natura, acqua, cielo, uccelli, pesci, assiste muta e solenne al gioco della vita, con i suoi rituali e le sue attese, i suoi abbandoni e la sua dolce malinconia.

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